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Michel Poiccard è uno scavezzacollo che dopo aver rubato un auto viene fermato da due poliziotti per un sorpasso ad alta velocità. Pur di non passare i guai uccide uno di loro e scappa in una continua lotta alla sopravvivenza. Sul suo cammino si porrà la giovane Patrizia, studentessa americana a Parigi, che perdutamente innamorata di lui, lo seguirà ovunque fino a giungere ad un tragico epilogo.
Prima regia di Jean-Luc Godard, sceneggiato da Francois Truffaut e supervisionato da Claude Chabrol, "Fino all'ultimo respiro" (titolo originale "A bout de souffle") costituisce il vero e proprio inizio di quella corrente cinematografica che vide come protagonisti i maggiori esponenti dei Cahiers du cinema, chiamata Nouvelle vague. Corrente contraddistinta da una serie di caratteristiche molto particolari: sceneggiature quasi inesistenti e il più delle volte costruite giorno per giorno, recitazione improvvisata e nata dall'ispirazione momentanea degli attori che avevano quasi carta bianca nella gestione dei proprio personaggi, regia molto particolare aiutata anche da un montaggio caratteristico.
Tutto questo è "Fino all'ultimo respiro", grandissimo film che ha aperto la succosissima filmografia del regista francese, maestro di stile e di eleganza, ma anche narratore di storie apparentemente ordinarie, ma condite da elementi straordinari.
In questo caso abbiamo una sorta di poliziesco che ricalca i film di serie B americani appartenenti al genere e che prosegue sul filo delle citazioni (prima su tutte il grande omaggio ad Humphrey Bogart, del quale il giovane protagonista imita le smorfie e i movimenti, per essere un vero duro come è sempre stato il grande attore sullo schermo) e delle auto-citazioni (la ragazza fa la giornalista proprio come all'epoca Godard e ad un certo punto legge al suo amico un pezzo di un articolo dei Cahiers du cinema).
Nonostante Michel (interpretato egregiamente da un Jean-Paul Belmondo ad inizio carriera) sia un assassino e un ladro, non si riesce a non simpatizzare per lui e per tutti i suoi trucchetti per sopravvivere, per giungere fino all'ultimo respiro. Così continua a rubare automobili, si presenta in casa di una sua vecchia amica chiedendo dei soldi in prestito, ma in realtà rubandoli dal suo portafoglio, continua a cercare un suo vecchio amico, Antonio, che apparentemente gli deve dei soldi e via di questo passo. L'unico imprevisto è costituito dalla bella Patrizia (straordinariamente impersonata da una bellissima e dolcissima Jean Seberg, che si rivelerà fatale), di cui Michel si innamora perdutamente. La ragazza americana è un po' sfuggente, perché è giovane ed inesperta e non sa se ama davvero l'uomo che ogni tanto si ritrova nel suo letto. "Non so se non sono felice perché non sono libera o se non sono libera perché non sono felice", dirà al suo amante. Tra di loro una serie di "giochi di fioretto", dialoghi davvero molto vitali e pieni di domande apparentemente stupide, ma in realtà illuminanti circa le personalità di ognuno dei due.
Straordinaria la lunga sequenza nella stanza d'albergo, nella quale i due innamorati si affrontano verbalmente nel letto e fuori dal letto, prendendosi di quando in quando una pausa per tuffarsi sotto le lenzuola e dare libero sfogo al loro amore. "Fra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore", confesserà la biondina dai capelli corti. "Il dolore è idiota: io scelgo il nulla", le risponderà il disilluso Michel. In effetti non farà altro che questo: correre all'impazzata verso il nulla, consapevole o meno del suo destino inficiato dall'amore per una donna, ma anche dalla stanchezza di proseguire un cammino difficoltoso e stancante. Pur potendosi salvare dalle grinfie del fato a lui avverso, dopo una serie di fortunate coincidenze che gli hanno permesso di cavarsela a buon mercato nonostante la sua foto fosse su tutti i giornali, sceglierà di fermarsi e di arrendersi anche perché estremamente ferito dal "tradimento" della sua Patrizia.
Interessanti piani-squenza speculari che si richiamano a vicenda si alternano a scene quasi spezzate a metà tramite un montaggio che senza un attimo di respiro ci porta da un volto ad un altro, da una situazione ad un'altra, apparentemente senza un minimo di logica, ma in realtà in maniera davvero ben studiata e congeniata.
Interessantissimo l'espediente di far interagire i protagonisti col pubblico, con il loro rivolgersi alla telecamera e di rimando a noi spettatori. Esemplare a riguardo la sequenza iniziale della lunga corsa in auto di Michel che, durante la sua sfrenata guida, volta il capo verso un inesistente passeggero e continua a porre dei quesiti o a esternare i suoi, apparentemente stupidi, pensieri: "Se non amate il mare, se non amate la montagna, se non amate la città...Andate a quel paese!".
Anche nel finale ritroviamo lo stesso espediente, con una sconvolta Jean Seberg con lo sguardo incredibilmente fisso nella camera che l'avvolge in un primissimo piano. La sua ultima domanda sarà: "Che significa schifosa?", apparentemente posta al poliziotto accorso sul luogo dell'"incidente", ma in realtà rivolta a noi che abbiamo assistito sin dall'inizio alla sua inesperienza con la lingua francese.
"Fino all'ultimo respiro", contrassegnato da uno straordinario bianco e nero, è dunque per tutti questi motivi un film dall'importanza capitale, proprio perché ha dato l'avvio ad un'epoca e ad un genere, rendendoci in grado di essere spettatori di tantissimi piccoli-grandi capolavori, proprio come in questo caso.
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Recensione a cura di A. Cavisi - aggiornata al 05/03/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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