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Il "Frankenstein" di Kenneth Branagh si può tranquillamente considerare un coraggioso tentativo di capolavoro, in parte fallito. Le buone intenzioni c'erano tutte; le basi forse no. L'eredità lasciata all'allora trentacinquenne regista inglese da autentiche perle della cinematografia mondiale come il "Frankenstein" del 1931 di James Whale e del successivo "La moglie di Frankenstein" dello stesso regista, gli devono aver pesato come un macigno, vista la necessità di dare alla pellicola quell'impronta megalomane e narcisista di cui il film è pregno.
Incline e fortemente attratto dagli spettacoli teatrali, Branagh ha fatto della teatralità il suo punto di forza, trasmettendo a tutti i suoi film quell'energia che spesso è sfociata in delirio di onnipotenza; a questo delirio non si è sottratto il film in questione, che ha nella ridondanza il proprio punto debole.
"Frankenstein" nasce, ancor prima di entrare nell'immaginario collettivo con le numerose trasposizioni cinematografiche, nella fertile mente della giovane Mary Wollstonecraft in Shelley un po' per gioco ed un po' per scommessa una sera d'estate del 1816. La ragazza ha 19 anni e già l'esistenza le ha riservato pene, dolori e lutti, sopportati e li' da sopportare, e proprio a quest'opera affida il suo carico di morte, le sue mortali fantasie.
Il film inizia dove poi ha fine: tra i ghiacci del mare artico, dove Victor Frankenstein, allo stremo delle forze, incontra il capitano Walton in rotta verso il Polo Nord e gli racconta la sua terribile e angosciante storia.
Partito da Ginevra dopo aver perduto la madre ed aver promesso eterno amore alla sorella adottiva Elisabeth, Victor giunge ad Ingolstadt alla facoltà di medicina, dove conosce il vecchio Waldman scoprendo che anch'egli si era prefissato, poi rinunciando, il suo stesso obiettivo: sfidare le leggi della natura dando vita ad un essere composto da parti di cadaveri. Grazie anche all'omicidio di Waldman per mano di un contadino, Victor riesce a portare a termine il suo terribile obiettivo, ma ciò che ne scaturisce è un abominio. Fuggito dal luogo della sua creazione, braccato da tutti, il mostro messo al mondo dal Dott. Frankestein trova rifugio in una fattoria dove, acquisita la conoscienza della lettura e della parola, scopre dal diario sottratto a Victor le origini della sua esistenza ed il derivante rifiuto ed abbandono da parte del suo creatore. La furia che ne consegue è inimmaginabile, e la vendetta terribile.
Va riconosciuto a Branagh di essere stato forse l'unico ad aver portato sul grande schermo un vero e proprio "adattamento" del testo letterario, al contrario dei suoi predecessori che, pur avendo firmato pellicole straordinarie, hanno comunque stravolto la storia del romanzo originario preferendo la semplice "trasposizione"; limitandosi cioè a prendere spunto dal racconto per poi reinventare un'opera con un linguaggio più filmico e appassionante possibile. Infatti prima dell'uscita del film di Branagh, nelle numerose pellicole che avevano per soggetto la creatura della Shelley, quasi tutte prodotte dalle case Universal e Hammer, Frankenstein era entrato nel nostro immaginario come un mostro terrificante completamente ebete, privo di linguaggio ed assolutamente assoggettato al suo creatore; è Robert De Niro (con un' interpretazione comunque notevole) a rendere giustizia alla creatura del romanzo, facendo conoscere agli spettatori oltre al lato orrifico anche quello umano della propria condizione.
L'interpretazione costantemente sopra le righe del regista è da ricercarsi, oltre alla sua innata predisposizione all'effetto, anche dall'esigenza di far breccia nel mercato americano; la scelta di Robert De Niro non è bastata a far sì che Hollywood si appassionasse ad una pellicola con un cast quasi completamente britannico con ambientazioni oltre oceano.
Certo, l'apporto di Francis Ford Coppola come produttore poteva far pensare ad un risultato migliore, ma la pedissequità rispetto al precedente lavoro di Coppola (questo si, riuscito) "Dracula di Bram Stoker" ha giocato a sfavore di "Frankenstein".
Non si deve comunque pensare ad un prodotto totalmente banale e supefluo: gli splendidi scenari dei ghiacciai e l'atmosfera vagamente gotico-romantica hanno un certo fascino e la sceneggiatura, pur soffrendo alcuni cedimenti, risulta lineare e ben sviluppata; gli attori, anche senza mai troppo brillare, offrono poi il loro contributo dignitosamente. Va notato come Branagh in alcune scene si avvalga del colore rosso come simbolo di innocenza e di purezza in contrasto con il tetro grigiore che circonda l'oggetto in questione; assistiamo così ad Elisabeth che fugge in abito rosso in mezzo alla folla di malati investiti dal colera, il fiore in mano al mostro circondato dai ghiacci, il vestitino del piccolo William perdutosi nel bosco, il drappo che avvolge Elisabeth nel finale: lo stesso contrasto lo avevamo notato un anno prima nel film "Schindler's list" con la bambina con il cappotto rosso che marcia al fianco dei deportati.
L'ossessione della morte e la conseguente presunzione di sostituirsi a Dio, palesata in maniera fin troppo scenografica dall'attore/ regista, è il tema principale del racconto che ha per soggetto (e come risultato) un essere che comprende la propria deformità e subisce la condanna che hanno i "brutti e cattivi" a patire l'alienazione dal mondo dei belli e dei buoni: il filoso irlandese Edmund Burke, autore di un importante trattato di estetica, ha sempre cercato di insegnare il concetto limite di una bellezza che confina con l'orrore e la deformità, una bellezza sublime; soltanto all'interno di questa teoria il mostro avrebbe trovato accoglienza.
Portare sugli schermi un film il cui soggetto è stato al centro di cult indimenticabili comportava dei rischi notevoli: Branagh li ha corsi ma ne ha pagato le conseguenze.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 17/12/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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