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"Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse trasformata in furore."
John Steinbeck - Furore – 1939
Nel 1929, precisamente giovedì 24 ottobre (il famoso "giovedì nero"), la Borsa di Wall Street subì un tracollo senza precedenti che si ripercorse drammaticamente sulle condizioni di vita dei cittadini americani e non solo.
Da quel giorno la vita per milioni di persone non fu più la stessa: i livelli di produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti e risparmi si ridussero drasticamente, costringendo il governo del Presidente americano Franklin Delano Roosevelt a varare un consistente piano di riforme economiche e sociali (conosciuto come "New Deal"), allo scopo di affrontare e risolvere i problemi della grande depressione, che ebbe effetti estremamente negativi anche in Europa.
Molti storici hanno stabilito che le conseguenze della grave crisi economica americana favorirono l'ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania, con successivo deterioramento dei rapporti internazionali, che nel 1940 portarono allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Dieci anni dopo, nel 1939, mentre ancora l'America si dibatteva nella più grave crisi economica della sua storia, lo scrittore statunitense, futuro premio Nobel, John Steinbeck, dava alle stampe il romanzo "The Grapes of Wrath", (che approssimativamente suona "I grappoli della collera" o "I grappoli dell'odio"), tradotto poi in italiano in "Furore" (titolo che cita uno dei passi più intensi dell'opera narrativa), che unanimemente viene considerato il romanzo simbolo della grande depressione americana degli anni '30.
Al suo apparire nelle librerie il libro scatenò numerose polemiche e altrettante numerose accuse politiche e religiose (venne definito immorale, degradante e falso), sia per l'argomento trattato che per il linguaggio utilizzato, considerati entrambi eccessivamente di sinistra.
In effetti dalle parole del testo l'autore lascia trasparire una forte critica, rivolta soprattutto verso l'establishment politico, sociale ed economico statunitense, che inseguiva successo e denaro, ma che soggiogava le famiglie, mantenendo la povertà a livelli di estrema indigenza. I danni che la grave crisi economica provocò nel paese non pesarono sulle classi agiate che avevano provocato il dissesto, bensì sulle classi più deboli della società: danni che si tradussero nella disgregazione dei nuclei familiari, nella scomparsa della piccola proprietà privata, in episodi di razzismo e xenofobia verso i diseredati e gli emarginati che in massa si riversarono nel paese. In altre parole nella prevaricazione dell'uomo sull'uomo.
L'anno successivo alla pubblicazione del romanzo, il regista John Ford tradusse per lo schermo le pagine del libro di Steinbeck, ricavandone un capolavoro memorabile e immortale e uno dei film più progressisti e liberali mai girati ad Hollywood, ancora oggi riconosciuto di sconcertante attualità, in cui si evidenziano: sfruttamento della manodopera, disoccupazione, lavori fasulli e sottopagati, mancanza di tutele sanitarie ed economiche, discriminazione delle donne sui posti di lavoro. Siamo nell'America della "grande depressione" del 1929, ma potremmo tranquillamente essere nel mondo neoliberista contemporaneo, tante sono le consonanze e le analogie.
Il film di John Ford, che non si discosta molto dallo spirito e dalla complessità del romanzo di Steinbeck, s'incentra nel momento del repentino passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, con tutte le conseguenze che ne derivano sulle vite delle persone, non ultime il progressivo cambiamento delle abitudini di vita e dei rapporti tra le classi sociali.
Il film, un road movie che demitizza drasticamente il "sogno americano", ci racconta le tragiche vicende di una povera famiglia di agricoltori dell'Oklahoma, i Joad, che perde la fattoria e il terreno su cui vive e lavora a causa della crescente meccanizzazione dell'agricoltura e della speculazione bancaria (la concentrazione della proprietà terriera voluta dalle banche), e si vede costretta ad abbandonare tutto ciò che ha per spingersi a cercare lavoro e fortuna in California.
Quando il figlio maggiore dei Joad, Tom, esce dal carcere, dove ha scontato una condanna a quattro anni per omicidio colposo, e torna a casa, mentre assiste alla cacciata di un vicino che cerca di resistere all'avanzata dei trattori scopre che la fattoria è stata abbandonata dai suoi familiari, rovinati da un ambiente ormai devastato dalla siccità e dall'avidità delle banche. Li ritrova (il padre, la madre, i nonni, sua sorella e suo marito) presso uno zio, che si è offerto temporaneamente di ospitarli, ma si rende conto che da quelle parti ormai non c'è più nulla da fare, e di conseguenza non rimane altra alternativa se non quella di abbandonare tutto e andare via.
Raccoglie allora le sue poche, misere cose e tutti i ricordi di famiglia (gelosamente custoditi dalla madre, che rappresenta la continuità della famiglia), li carica a bordo di un vecchio camioncino sgangherato e insieme ai suoi parte alla volta dell'ovest, verso la terra "del latte e del miele", verso la California, dove si dice ci sia lavoro e benessere per tutti.
Inizia così una lunga e difficile odissea, resa ancora più dura dalle aspre condizioni di vita che incontrano lungo il cammino, tanto da far assumere al viaggio i toni epici delle grandi migrazioni verso la "terra preomessa".
Nel corso della peregrinazione, (lungo la mitica "route 66", che anni dopo sarà teatro di altri leggendari viaggi di formazione, sia letterari - "Sulla strada" di Keruak - che cinematografici - "Easy Ryder" di Dennis Hopper - alla scoperta della libertà e della contestazione giovanile) funestata dal dramma dell'immigrazione muoiono i suoi nonni, che vengono seppelliti fortunosamente. Il marito della sorella, non riuscendo a sopportare il peso di un'esistenza tanto degradata, lascia la moglie e rinuncia a proseguire il viaggio. Intanto gli abitanti dei paesi che incontrano lungo il percorso si dimostrano ostili nei loro riguardi e verso coloro che sono in cerca di pane e lavoro.
Arrivati in California, in un campo di rifugiati, troveranno una miseria ancora più nera di quella appena lasciata, e ancora sfruttamento, disoccupazione, caporalato e violenza padronale.
Scoppiano proteste e violenti tafferugli, che la polizia reprime con durezza, poi, nel corso di uno sciopero contro la speculazione e i salari di fame, i poliziotti ammazzano Casey, ex predicatore alcolizzato deluso dalla religione, che era alla testa dei dimostranti. Per vendicare il suo amico, Tom, novello emblema della ribellione sociale, uccide a sua volta un poliziotto ed è costretto nuovamente a scappare, non prima di aver promesso alla madre: "ovunque guarderai potrai vedermi, ovunque ci sarà gente che lotta per sfamarsi, io ci sarò."
Visto oggi, a tanti anni di distanza dalla sua realizzazione, il film di John Ford rimane un'opera di vibrante attualità, che non dimostra assolutamente i suoi anni (a parte i piccoli dettagli ambientali), tanto è crudo e realistico nelle più significative tragedie che le recessioni economiche o le crisi ambientali provocano sugli individui. E queste tragedie, oggi, sotto un altro clima e sotto altre latitudini, sono sotto gli occhi di tutti.
Intere popolazioni dell'Africa, dell'Asia e del Medio Oriente, spinti dalla miseria, si riversano verso l'Europa alla ricerca della loro terra promessa, verso condizioni di vita migliori per sé e per i loro figli. E anche noi, oggi, come nella California di allora, li respingiamo o li costringiamo ai lavori più umili. Oggi, come nel 1929, li facciamo morire sui posti di lavoro, li facciamo lavorare in fabbriche inquinanti o sotto capannoni insicuri, in cantieri edili pericolosi e privi di norme igieniche, esposti al caporalato e alla criminalità organizzata.
Indifferenti assistiamo alle tragedie che spesso si abbattono sui loro viaggi della speranza, indifferenti spesso li rimandiamo nei loro paesi e alla loro miseria.
Il viaggio della famiglia Joad acquista così il valore simbolico di tutti i viaggi disperati con la vaga speranza per la realizzazione di una società più giusta e più equa, di cui si vedono i bagliori ma non le prospettive. I disagi che deve affrontare lungo il cammino servono al regista per denunciare le ingiustizie del sistema economico americano in auge all'epoca; il personaggio di Tom diventa così personificazione della lotta di classe, l'eroe errante che rinuncia a costruirsi un futuro per affermare i valori della solidarietà umana e il senso della democrazia e della giustizia sociale.
Traducendo per immagini le pagine scritte da Steinbeck, il regista John Ford infonde alla vicenda tutti i tratti caratteristici della poetica western e della tradizione americana, a lui tanto cari: dalla religione alla solidarietà familiare, dall'amore per la terra da coltivare alla frontiera da conquistare; il camioncino come la diligenza, le lotte sindacali come le battaglie contro gli indiani, i dirigenti dei campi come gli sceriffi corrotti. Con relativa tipologia dei personaggi: la saggezza degli anziani, l'eroe solitario, la sofferenza degli esuli, l'egoismo di chi ha raggiunto la stabilità economica, il legame dei contadini con la loro terra.
Decisamente riuscito il ritratto della famiglia vista come luogo degli affetti e della tradizione, ma anche come valore fondante della società e dell'identità dell'uomo. Un racconto per immagini magistrale nella sua essenzialità e nella sua capacità di saper trasmettere il senso di sradicamento e di provvisorietà di una comunità, costretta contro la sua volontà, a lasciare i luoghi in cui aveva sempre vissuto.
John Ford è stato un cantore del cinema classico americano, e non vi è dubbio che nel genere western egli abbia trovato la sua massima espressione, eppure questa etichetta risulta limitata e limitante per un regista che si è dimostrato capace di passare con estrema disinvoltura dal genere drammatico di "Furore" alla commedia di "Un uomo tranquillo". Un talento che solo i grandi registi possono vantare.
Egli fece un film così evoluto politicamente, un po' per dimostrare il senso del suo liberismo a chi lo accusava di essere un reazionario, e un po' come atto di costrizione per il suo paese di elezione, e per un popolo divorato dal capitalismo su cui ha costruito il suo stile di vita, e da cui nascono i germi della speculazione, che come una maledizione si ripercuote sempre sulle spalle della povera gente.
L'odissea di Tom Joad (un grandissimo Henry Fonda, candidato all'Oscar come miglior attore, che ha saputo infondere al suo personaggio una valenza atemporale come solo i grandi interpreti riescono a fare) ha ispirato Bruce Springsteen a scrivere lo struggente testo della canzone "The Gost of Tom Joad", mentre la celebre "Red River Valley" presente in diversi momenti del film, cantata dallo stesso protagonista Henry Fonda, è diventata una delle canzoni più rappresentative dell'epoca dei cow boy, ed è stata utilizzata nelle sequenze finali di "Alba fatale", sempre cantata da Fonda.
Nel passaggio dal mezzo espressivo scritto a quello audiovisivo si sono rese necessari alcuni accorgimenti, il più evidente dei quali rimane la scelta di attenuare il pessimismo di fondo della vicenda con un finale più ottimistico di quello del romanzo di Steinbeck (finale forse voluto o imposto dalla produzione), in linea con i dettami dell'ideologia rooseveltiana del "New Deal" per il rilancio dell'economia.
Con questo "Furore" rimane un affresco di una delle pagine più nere della storia americana. Un affresco storico che solo un autore come John Ford poteva disegnare, in quanto storia che lui, immigrato irlandese, con tutto il suo carico di scoramento per la perdita delle proprie radici, ha contribuito a scrivere.
Un racconto per immagini sui migranti e sulle loro sofferenze, dunque, ma anche un film, tipicamente on the road nella sua essenza più pura, ricco di immagini e di scene corali, che mostra in questo una certa continuità con il precedente western "Ombre rosse", e che, per la sua modernità, anticipa di oltre trent'anni i grandi autori del nuovo cinema hollywoodiano.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 18/09/2012 15.22.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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