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In molte zone impervie dell'India (e più in generale di tutto il subcontinente indiano e del sud-est asiatico) vivono ancora numerose tribù di antiche etnie (tribali), ultimi custodi di una tradizione millenaria.
Lo stile di vita di queste popolazioni si scontra con la modernità che avanza, con il consumismo che pervade le metropoli asiatiche e con un Governo spesso indifferente e intollerante, che dimentica facilmente gli oltre 90 milioni di tribali che ancora vivono nel centro della giungla del centro India.
La scrittrice Mahasweta Devi da anni dedica la sua attività a favore di quelle popolazioni, che non godono di alcun diritto civile, che neppure sanno di avere.
Dal suo racconto "Dietro il corsetto", contenuto nella raccolta "La trilogia del seno", il regista e documentarista Italo Spinelli, innamorato di questa terra e della sua cultura, ha tratto la sceneggiatura di "Gangor", un lungometraggio che oscilla tra fiction e documentario, per parlarci della condizione di sottomissione e della mancanza di diritti in cui si trova ancora oggi la popolazione femminile delle classi tribali in India (problema comune e purtroppo ancora attuale a quello di moltissimi altri paesi del mondo), ma anche per raccontarci del coraggio di quelle donne nella ricerca del loro riscatto e della loro emancipazione.
Siamo in un piccolo villaggio rurale nel distretto di Parulia del Bengala Occidentale, la cui popolazione vive ancora in regime tribale e in condizioni di estrema arretratezza sociale, culturale ed economica, toccata solo marginalmente dall'evoluzione del progresso e dalla diffusione dell'istruzione.
In questi luoghi arriva Upin, noto fotoreporter di un giornale di Calcutta, per realizzare, per conto del suo giornale, un servizio fotografico sulla condizione delle donne delle comunità tribali e sugli abusi e le vessazioni secolari cui vengono sottoposte dai maschi di quelle tribù.
Giunto sul luogo, in compagnia del suo assistente Ujan, il giornalista viene a contatto con una realtà sconosciuta a Calcutta, fatta di sfruttamento del lavoro e di espropriazione delle da parte del Governo centrale, con conseguente invio dei contadini in fantomatici centri di accoglienza.
Mentre si appresta a svolgere il suo lavoro, l'obiettivo della sua macchina fotografica si fissa per caso su una bellissima ragazza locale, Gangor, intenta ad allattare al seno il suo bambino.
Il navigato giornalista viene sedotto dalla bellezza di quel seno nudo e immortala la ragazza in una serie di innocenti fotografie, una delle quali finisce sulla prima pagina del giornale per il quale lavora, a corredo del suo reportage sulla protesta delle donne tribali contro l'inveterata abitudine dello stupro di gruppo, cui vengono metodicamente sottoposte e a cui la cultura tribale le costringe passivamente a sottostare.
In effetti Upin non agisce con intento calcolatore, ma piuttosto per quel naturale istinto del reporter allo scatto fotografico, ciò nonostante quella foto scatena la violenta reazione della polizia locale e compromette per sempre la reputazione di Gangor.
La donna, infatti, già moglie di un uomo che la picchia selvaggiamente e la sfrutta, verrà etichettata come "puttana", criminalizzata dalla sua stessa comunità per aver provocato gli uomini e sottoposta a ripetute violenze sessuali di gruppo, da parte degli uomini del suo villaggio e della stessa polizia.
Upin, intanto, rientrato a Calcutta dalla moglie, continua ad essere turbato dal ricordo della ragazza tanto che decide di tornare a Parulia, dove scoprirà di essere diventato parte dello sfruttamento femminile e involontario strumento di quella violenza che voleva denunciare ma che, invece, le sue immagini hanno contribuito a provocare. In preda fortissimi sensi di colpa, cadrà vittima del suo delirio di espiazione e sacrificherà tutto per cercare di aiutare la donna.
Alla fine sarà lei a portare avanti, in tribunale, la sua battaglia contro gli stupratori, supportata dalle altre donne che troveranno la forza di slacciarsi il corpetto, e a seni nudi gridare "stop the rapes", stop agli stupri, e stop alle vessazioni cui sono sottoposte.
Presentato in concorso al V Festival del Film di Roma 2010, il lungometraggio di Italo Spinelli, oltre ad essere un ritratto di donne, ed in particolare di donne violate, evidenzia due temi di grande attualità: Il primo è una riflessione e una denuncia sulla condizione delle donne, e più esattamente la pesante discriminazione a cui la cultura maschile dominante in quel contesto continua ad imbrigliare l'universo femminile, ledendo la dignità e relegando le stesse ad una condizione di inferiorità, rendendole così vittime sacrificali del potere dei maschi che possono abusarne a proprio piacimento (condizione comune a tante realtà, anche quella nostrana dove la cultura maschilista continua a considerare le donne come oggetti, una cultura dove bastano denaro, regali, promesse per calpestare la loro dignità, dove corrompere un'altra persona è un gioco eccitante perché la fa diventare complice della propria ricchezza).
Il secondo riguarda il potere dei media per il ruolo che svolgono quando fotografano la realtà, perché il messaggio visivo attraverso cui viene veicolata gran parte delle informazioni, a causa dell'impatto immediato e prevalentemente emozionale tipico del messaggio visivo, spesso prende il sopravvento sul contenuto del messaggio stesso, riuscendo così a glorificare e rendere immortali, ma anche a distorcere la verità condannando all'emarginazione e allo sfruttamento.
L'India è molto ben rappresentata e fotografata (belle le immagini dei mercati, colorati e brulicanti di vita, dei sari delle donne, delle strade affollate, dei vicoli bui, delle abitazioni fatiscenti), mostrata nella sua duplicità: da una parte la realtà della Pavulia rurale la cui popolazione vive ancora ai margini e in condizioni di estrema indigenza e arretratezza sociale e culturale; dall'altra la Calcutta occidentalizzata, almeno in alcuni quartieri, dove una parte della popolazione ha fatto propri modelli e stile di vita moderni.
Sullo sfondo, ad affollare una narrazione di denuncia sociale, subentra un sottotesto politico, con la rappresentazione della forte presenza dei naxaliti (maoisti indiani) all'interno delle comunità tribali, pesantemente osteggiati dalla violentissima polizia locale, che pratica impunemente l'abuso di potere.
Il film sfrutta appieno l'impianto documentaristico, che amplifica la drammaticità della vicenda narrata, e riesce dignitosamente a perseguire l'obiettivo di dare credibilità ai personaggi che si muovono sulla scena.
Anche se in alcuni punti indugia un po' troppo su alcuni luoghi comuni (come la voglia di espiazione e il senso di colpa del reporter) mentre glissa, forse troppo bruscamente, su fatti e avvenimenti (la psicologia dei personaggi è solo abbozzata e la violenza sulle donne, che si vuole denunciare, è solo accennata e poco mostrata), rimane pur sempre un'opera interessante sia dal punto di vista narrativo che visivo e le bellissime inquadrature, sia della metropoli di Calcutta come quelle dei paesaggi del Bengala occidentale, lo confermano ampiamente.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 21/03/2011 15.47.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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