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Tutti coloro che credono esista un confine invalicabile dell'identità sessuale sono destinati a ricredersi dopo aver visto "Humpday - Un mercoledì da sballo".
Perché, se è vero che la caratterizzazione sessuale descrive la dimensione soggettiva del proprio essere sessuati, è anche vero che oggi è opinione diffusa (anche al'interno dello stesso mondo scientifico) che tale dimensione ha certamente meno limiti che in passato.
E allora una identità senza confini o identità dai confini non ancora del tutto esplorati?
A cercare di dare una risposta al dilemma, pur con i toni leggeri della commedia, ci prova il film della giovane regista americana, Lynn Shelton: come dire "i confini dell'identità sessuale maschile visti con gli occhi di una donna".
Perché il suo film sposa la tesi della sottile labilità di tali confini, e di quanto possa essere rigida o fluida una identità complessa, che contiene elementi di incertezza e di imprevedibilità, che, ad osservarla da diverse angolature, offre una preziosa opportunità di riflessione su una realtà sociale (e culturale) non sempre facile da decifrare (e da vivere).
Comunque, è bene sgombrare subito il campo dal facile equivoco di credere che "Humpday" sia un film "gay" o, ancora peggio, una commedia demenziale e becera, come il pessimo sottotitolo italiano (ancora uno) induce a pensare.
Al contrario il film della Shelton, sul modello della commedia leggera e irriverente, si propone di trattare il tema della sottile linea d'ombra che separa l'amicizia dall'attrazione sessuale tra due persone dello stesso sesso, e di come sia labile, ma difficile da superare, quel confine e accettare i tabù della propria latente componente omoerotica per quelle persone che si sono sempre ritenuti profondamente e genuinamente etero.
Sullo sfondo rimangono altre tematiche esistenziali, come la monotonia post-matrimoniale accresciuta dall'obbligo di assumere un determinato stile di vita, i problemi vitali della generazione dei trentenni e le loro paure di crescere e di assumersi le responsabilità adulte, la profondità e i limiti del legame d'amicizia virile e gli equivoci che può generare tra gli stessi amici e nella società in generale, l'omofobia e i pregiudizi che ne derivano.
Lo spunto è dato da due vecchi amici, oggi trentenni, che si rivedono diversi anni dopo l'Università.
I due si erano conosciuti ai tempi del College i due "bad boys" Andrew e Ben, probabilmente in qualche toga party o in qualche severa aula scolastica.
Dopo l'Università si erano persi di vista e ognuno ha vissuto la propria vita. Ben si è dato una calmata, si è sposato con Anna e ha messo la testa a partito. Oggi è un uomo che ha raggiunto un certo suo equilibrio, fa malvolentieri un lavoro economicamente soddisfacente che gli permette di cominciare a pensare, insieme alla sua mogliettina, di mettere in conto la nascita di un figlio.
Andrew, al contrario ha smesso di crescere ed è rimasto il bamboccione donnaiolo di sempre, si autoproclama artista giramondo e sembra stupito da come Ben si è integrato nella società, stupito della sua normalità, della sua vita borghese, del suo menage familiare, della sua casa piena di libri. Ha persino la doccia con l'acqua calda e il tavolo per il caffè.
Un mercoledì, verso le due di notte, mentre Ben e Anna stanno già dormendo, Andrew bussa alla loro porta. È di passaggio da quelle parti, reduce dall'ennesimo "viaggio della sua vita", dal Chapas alla Cambogia, ed ha tante cose da raccontare dei suoi "incredibili viaggi artistici". Non immagina minimamente che il suo arrivo getterà nello scompiglio la vita del suo amico e farà traballare il suo felice matrimonio.
L'incontro fa riaffiorare in loro i ricordi sopiti delle loro prodezze erotiche di maschi profondamente etero con le ragazze del Campus, e si ristabilisce quello spirito cameratesco di allora, come se il tempo non fosse passato e loro due fossero ancora quelli di un tempo. Entrambi sentono il bisogno di dimostrare, e principalmente a se stessi, di non essere diventati ostaggio delle vite che stanno vivendo.
Due vite che all'inizio sembrano un classico esempio di "parallelismo antitetico" e che pian piano cominciano a collimare sempre più profondamente, tanto da fa dimenticare a Ben il disagio di ritrovarsi la casa "invasa" e il suo matrimonio che vacilla sotto l'incalzare degli avvenimenti.
E ben presto i due riprendono la loro dinamica macho-competitiva da ex ragazzacci del campus.
Tutto però sembrerebbe rientrare nel classico amarcord giovanilistico, nella classica rimpatriata tra due vecchi amici che in passato hanno condiviso donne, sesso, alcool e poca voglia di studiare, fino a quando, un giorno, Andrew, per sdebitarsi dell'ospitalità ricevuta, non invita Ben ad una "notte brava", una festa "particolare" in casa di una sua vecchia fiamma, ora scopertasi bisessuale.
Ben, naturalmente, accetta molto volentieri. Tanto cosa importa la moglie, cosa importano gli impegni familiari, lui può farcela, lui è sempre lo stesso Ben del College. La vita che conduce è esclusivamente una sua scelta, nessuna coercizione, nessuna imposizione, lui è un uomo libero e all'occorrenza è pronto a riprendere a seminare goliardate, e non gli frega niente della mogliettina, del progetto paternità, del lavoro, della bella casa. Di tutto, insomma.
Solo però che la festa è a base di alcol e di droghe e ben presto i due amiconi si ritrovano con le menti annebbiate e i pensieri che frullano per conto loro. Sentono così parlare di un concorso cittadino, l'Humpfest, un festival particolare dove si concorre con dei corti porno-amatoriali, e decidono di parteciparvi. Ma ormai tutte le strade del porno sono state percorse, e per avere una chance di vittoria occorrerebbe un'idea originale, qualcosa mai tentato finora da nessuno. Emerge allora l'ipotesi di filmare con una telecamera digitale un amplesso omo tra due maschi convintamente etero, che fanno l'amore insieme per la prima volta, in una camera d'albergo.
E chi meglio di loro due per interpretare gli attori!
La mattina dopo, però, smaltiti i postumi dionisiaci, rimane il problema di come dirlo alla moglie di Ben, che non la prende mica tanto bene, e soprattutto di come superare l'imbarazzo di fare sesso insieme.
Entrambi lontani dal pensiero di essere il primo a rinunciare all'ultima bravata della loro vita, più per principio che per reale convinzione, finiscono, prima a scambiarsi un bacio in mutande e pancetta ("tanto è come salutarsi calorosamente in piscina"), poi maldestramente nudi nello stesso letto, dove, nel corso di lunghi discorsi, al limite della psicologia antropologica, cercheranno di capire come fare a venire fuori da quel guazzabuglio.
E poco importa sapere se se alla fine ce la faranno a consumare o meno.
Perchè il sottile fascino della trasgressione perde molto del suo incanto quando si ha la certezza di poterla compiere.
Presentato con successo al Festival di Cannes 2009, nell'interessante sezione della Quinzane, dopo essere stato premiato al Sundance dello stesso anno, "Humpday" è un film solo apparentemente ingenuo e autoironico, in realtà è molto più "pensato" di quanto voglia far credere, tutto teso ad esplorare il doppio immaginario della natura umana, per cogliere e rivelare i lati più umbratili e inconfessabili della nostra identità sessuale, le contraddizioni e le insicurezze che finiscono per dissolvere il confine tra realtà e utopia.
Tutti componenti dell'inconscio collettivo che, quando appaiono nella coscienza sotto forma di pensieri e sentimenti moralmente o socialmente riprovevoli, vengono rimossi nell'inconscio personale.
Un film che, forse, solo una donna poteva scrivere e dirigere, anche facendoci divertire molto, che scava nel profondo delle relazioni umane e affronta anche altre tematiche, come i limiti dell'intimità nell'amicizia tra maschi, il modo con cui riusciamo a mostrarci agli altri, spesso ben lontano da come siamo realmente, e l'imponderabilità della nostra identità quando ci costringiamo a guardare, come dentro uno specchio, la nostra vita e ci accorgiamo che non è quella che avremmo voluto vivere.
La Shelton riesce perfettamente a mostrarci, il lato tragicomico della vita, compenetrandosi nei tormenti dei due protagonisti principali, ed immedesimandosi, più che nel personaggio della moglie di Ben (come era più logico, dato la sua natura femminile), in Ben stesso, descrivendoci con grande senso di solidarietà, lo stato d'animo di un uomo (forse) felicemente sposato, assalito improvvisamente dai dubbi su se stesso e sul suo menage familiare al solo apparire nella sua vita di colui che gli ricorda il cameratismo di un tempo e gli anni di bisbocce post-adolescenziali. Vecchi ricordi che la monotonia del suo matrimonio hanno fatto sbiadire.
L'intento della regista è quello di bollare i tabù e le discriminazioni che colpiscono le vite di persone che vorrebbero fortemente legare tra loro, e di mostrarci le paure esistenziali della condizione umana: paura di diventare adulti, paura di rapportarci agli altri, paura di mostrarci per quello che siamo, paura di restare ingabbiati in una vita che non ci appaga, paura dell'amore e dello smarrimento, paura di abbandonare il conosciuto ed addentrarci nello sconosciuto.
Girato secondo gli stilemi del "mumblecore" (che deriva da "to mumble", ovvero mormorare, parlottare, rimuginare tra sé), la nuova frontiera del cinema indie americano, che privilegia un cinema molto parlato e intimista, "Humpday" è un film a basso budget, di pochi mezzi (molte riprese sono state effettuate con la macchina a mano, quasi a sottolinearne l'autenticità) e con una sceneggiatura (della stessa Shelton, che si ritaglia il piccolo ruolo dell'amica lesbica) quasi improvvisata; valorizzato dalle ottime interpretazioni di Mark Duplass (Ben), un habitué del mumblecore insieme alla Shelton, e da Joshua Leonard, assolutamente irresistibile nel ruolo di Andrew. Due attori, insieme all'ottima Alycia Delmore, la moglie di Ben, ancora poco conosciuti, soprattutto da noi.
E così, anche in "Humpday", non lasciarsi scappare i titoli di coda, perchè nell'ultima battuta risiede la chiave di volta che sorregge l'intera impalcatura del film.
Il titolo "Humpday" gioca sul simbolismo del significato della parola: nello slang americano, humpday è riferito al mercoledì, ovvero la giornata più gravosa dell'intera settimana lavorativa, già lontana dall'ultimo weekend, ancora distante dal prossimo a venire; ma "to hump"è anche il termine volgare con cui si indica l'atto sessuale.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 15/06/2010 15.23.00
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