Recensione il cavallo di torino regia di Bela Tarr, Ágnes Hranitzky Ungheria 2011
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Recensione il cavallo di torino (2011)

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locandina del film IL CAVALLO DI TORINO

Immagine tratta dal film IL CAVALLO DI TORINO

Immagine tratta dal film IL CAVALLO DI TORINO

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Immagine tratta dal film IL CAVALLO DI TORINO

Immagine tratta dal film IL CAVALLO DI TORINO
 

Il 3 gennaio 1889, uscendo dalla sua casa di via Carlo Alberto 6, a Torino, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche vide un cocchiere frustare a sangue il cavallo che trainava il suo carretto: "Tu, disumano massacratore di questo destriero" inveì il filosofo furibondo, abbracciando e baciando sconvolto l'animale. Da lì a pochi giorni Nietzsche sarebbe stato inghiottito da un gravissimo tracollo psichico che l'avrebbe accompagnato fino al giorno della morte.

Il film, rigorosamente in bianco e nero e praticamente privo di dialoghi, del regista ungherese Bela Tarr, prende spunto da quell'episodio per raccontarci non la storia degli ultimi anni di vita del grande filosofo (Tarr ovviamente non ci fa vedere Nictzsche che abbraccia il cavallo), ma quella, assolutamente sconosciuta, del destino del cavallo, dell'uomo che lo frustrava e della sua unica figlia. E lo fa con un'opera, se possibile, ancora più ermetica, minimalista, cupa e visionaria dei suoi precedenti lavori, che probabilmente, come hanno scritto alcuni, chiude una trilogia cominciata nel 1994 con il film fiume "Satantango" e proseguita nel 2000 con "Werckmeister armonia".

Resta il fatto che l'ultimo film del maestro ungherese, vincitore a Berlino 2011 del Premio Speciale della Giuria, si spinge oltre i limiti di quelli che sono gli schemi della cinematografia contemporanea per instillarci l'essenza della sua poetica descrittiva e restituirci tutta la forza atavica del cinema.
E così il suo agire ingloba la realtà, la modifica e la manipola secondo il suo credo visionario e ce la restituisce secondo uno schema che mette al centro la sua personalissima visione della vita e della morte, dell'uomo e della condizione umana.

Con "Il cavallo di Torino" il cineasta ungherese prosegue, sia nell'estetica che nella narrazione, sulla stessa strada tracciata con le sue precedenti opere, e con lo stesso stile barocco e austero ci introduce nella desolata quotidianità di un vecchio uomo e di sua figlia. Non hanno niente, vivono di niente e la loro unica ricchezza è rappresentata da un macilento cavallo, lo stesso che abbracciò Nietzsche per le strade di Torino.
Una voce fuori campo, su uno schermo assolutamente buio, introduce brevemente il film, raccontandoci il famoso episodio (per altri leggendario) che segnò la prima manifestazione della follia del filosofo, che si tradusse in 10 anni di pressoché totale afasia, prima della morte avvenuta il 25 agosto del 1900.
Naturalmente il riferimento a quell'episodio è un pretesto che il regista confina nello spazio nero che introduce il film.

Subito dopo un lungo, sfarzoso piano sequenza, di grande impatto visivo, ci accompagna nel primo dei sei interminabili giorni in cui il film è rigorosamente ripartito, mentre una didascalia all'inizio di ogni segmento narrativo ci informa del lento trascorre dei giorni. Torino è lontana, il paesaggio brullo e sferzato dal vento, assomiglia più alla puszta ungherese che alla fertile pianura piemontese. Un casolare sperduto nel gelido inverno, un pozzo, un albero, un fienile e all'orizzonte una collina, sono il mondo dei due protagonisti.
Vediamo così un uomo anziano guidare verso casa il suo carro, trainato da un macilento cavallo che avanza faticosamente su una strada di campagna sferzata da una incessante tempesta di vento, che non smetterà mai di soffiare nei giorni a venire.
Dovrebbe essere il famoso cocchiere di Torino che si guadagna da vivere facendo il carrettiere in città, forse vendendo grappa, mentre nel casolare, sua figlia, una donna ancora giovane ma già sconfitta dalla vita e votata al sacrificio, aspetta pazientemente il suo ritorno.

La vita nel casolare segue il ritmo di una prolissa routine consolidata nel tempo, mentre gesti sempre uguali si consumano in una liturgia che ingabbia i personaggi e ne spegne ogni umanità. L'unico che sembra rompere la triste ripetitività dei giorni che si susseguono negli insistenti schemi del tempo è proprio il cavallo del titolo, che non vuole più uscire, si rifiuta di muoversi e di mangiare e sembra intenzionato a lasciarsi morire.
Segno tangibile che qualcosa sta per cambiare e che forze oscure stanno conducendo il mondo alla fine.

In attesa che il tempo svuoti dei contenuti cose e situazioni e il destino si compia, vediamo la lenta, estenuante ritualità delle scarne azioni del cocchiere e della giovane figlia che vive con lui, Sei giorni di vita e di lavoro di due poveri contadini, padre e figlia, racchiuse tra quattro mura spoglie del casolare, in cui tutto si ripete sempre uguale, giorno dopo giorno, momento dopo momento: Il tutto secondo una logica che suggerisce l'insostenibile pesantezza dell'essere di chi vive ai margini della storia.
Solo due allusive visite romperanno la sofferta monotonia dei due personaggi: uno sconosciuto venuto a comprare la grappa, il quale monologa sulla mancanza di Dio nella società  e annuncia l'imminente fine del mondo e un carro di zingari che si fermano per rubare l'acqua dal pozzo e vengono scacciati a bastonate dall'uomo. Prima di andarsene minacciano che presto torneranno perchè l'acqua e la terra appartengono a loro, poi uno degli zingari lascia alla ragazza un libro che parla di sciagure e penitenze.
La profezia lentamente comincia ad avverasi - il cavallo è morente, il pozzo si secca e la luce comincia ad affievolirsi.
I due tentano una disperata fuga al di là della collina, ma sono sopraffatti dal vento e costretti a desistere dal tentativo di salvezza. Poi il vento si placa, l'ultimo bagliore del lume a petrolio cessa di illuminare e lascia il posto alla totale oscurità.
Il sole si spegne e con esso si spegne il mondo.

In quasi due ore e mezza parche di parole e di azioni, Tarr costruisce una potente, raffinata allegoria sulle ultime cose: sull'ultima acqua, sull'ultimo cavallo, sull'ultima fiammella, sull'ultimo giorno.
E la fine nel cinema non è stata mai così infinita, così immane come lo è in "A Torinói ló".
E di conseguenza non è mai stata così cupa, così sconfortante, così disperata la condizione umana come lo è nel film di Tarr, svuotata pure della stessa speranza.
Il riferimento al cavallo che Nietzsche abbracciò a Torino e segnò la prima manifestazione della sua follia, è un pretesto che il regista confina nello spazio nero che introduce il film. La metafora è manifesta: il buio, il vento, la siccità, il silenzio, la fame, altri non sono che l'espressione ultima del senso della fine imminente, la coscienza di ciò che costituisce la vita, il segno evidente che nulla è più possibile.
Ed è con questa certezza che ci si avvolge su noi stessi fino alla fine del tempo.

Con "Il cavallo di Torino" il regista magiaro scrive il capitolo conclusivo di una storia iniziata 10 anni fa con Werkmaister Harmony, anzi sembra proprio che il film cominci dove finisce quello. Se lì la balena in decomposizione era il simbolo della follia umana, qui è il mondo intero ad essere in decomposizione e quindi è l'uomo stesso a non avere più futuro.

Le caratteristiche principali dello stile ermetico e austero di Bela Tarr - l'uso perfetto del colore che sbiadisce in un bianco e nero povero di contrasti, lo svolgimento barocco e insieme minimalista della narrazione, i lunghi e insistiti piani sequenza utilizzati nel corso dell'intero film, la cura ossessiva della musica che si integra totalmente nello svolgimento della storia e procede con pochissime varianti a dare spessore ed emotività all'immagine, il rumore incessante e ipnotico del vento che spira costante sollevando polvere e disperdendo foglie secche, - ci sono tutti e ad essi Tarr affida il compito di raccontarci la desolazione di esistenze in cui è racchiusa tutta la disperazione del mondo.
E se, come sempre, scopo del regista è quello di mostrarci la propria rassegnata e impietosa visione del mondo, qui sembra addirittura giungere alle conseguenze più estreme. Forse non siamo ancora all'Apocalisse, ma è sicuramente la perenne sofferenza che caratterizza l'esistenza umana all'alba del nuovo millennio.

Non è dunque la fine del mondo ad angosciare il cineasta, bensì l'idea di un mondo senza fine.
La vita umana racchiusa nel fatalismo, nei gesti dettati dalla necessità, negli ossessivi schemi del tempo.
Ma è un equilibrio destinato ad incrinarsi troppo presto, gli eventi precipitano inesorabilmente e nulla è più possibile. Non resta che soccombere o cercare di imparare a guardare, per non abbandonare la speranza che qualcosa possa ancora cambiare. E provare a salvarsi.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 05/07/2012 13.20.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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