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Nel 1961 Elio Petri esordì con il suo primo lungometraggio "L'assassino" ma si vide costretto dalla censura a tagliarne una scena semplicemente perché vi si mostrava un poliziotto dalle scarpe sporche di fango che veniva ripreso bruscamente da un portiere.
Vilipendio dell'autorità costituita?
Il regista si rifarà, con gli interessi, dieci anni più tardi.
"Mi vuoi spingere verso l'illegalità? Sarebbe troppo facile, nella mia posizione"
Il 1969 è un anno di transizione per la storia italiana: si sono da poco spenti gli echi di Valle Giulia e dei primi movimenti studenteschi ma si avverte nell'aria che qualcosa è in trasformazione ed in rapido peggioramento e che lo 'Stato' forse non è pronto ad affrontarlo. Petri se ne accorge e, dopo aver indagato sui metodi utilizzati dalla Polizia negli scontri del '68, scrive con Ugo Pirro il soggetto di "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto": una critica lucida, feroce ma soprattutto anticipatrice, sui meccanismi e le nevrosi del potere. Sarà infatti solo al termine delle riprese del film, con l'attentato di P.zza Fontana ('l'Italia del 12 dicembre' cantata da De Gregori) che si aprirà la stagione degli attentati, degli anni di piombo, della nuova contestazione studentesca, di quella che Zavoli definirà efficacemente 'la notte della Repubblica', in cui l'analisi di Petri si rivelerà in tutta la sua tragica validità.
E' proprio nel timore di nuovi interventi censori dovuti a questi sviluppi che il film fu presentato privatamente dai due ad alcuni colleghi e registi (tra cui Zavattini, Monicelli e Scola) che, pur nell'entusiasmo della visione, lo commentarono con un secco: "Andate in galera".
Nonostante questa poco rassicurante sentenza ed alcune difficoltà di produzione e distribuzione, il film uscì e fu subito un successo, si dovettero addirittura organizzare proiezioni speciali per permettere a tutti la visione.
Protagonista del film è il capo della squadra omicidi di Roma, interpretato da uno strepitoso Gian Maria Volontè: è un personaggio di cui non veniamo mai a sapere il nome (sulla sceneggiatura viene chiamato semplicemente 'il dottore' o 'l'assassino') perché non vuole rappresentare se stesso ma un qualsiasi soggetto di potere o, ancora più in generale e metonimicamente, il Potere tout court.
Si tratta di un personaggio autoritario, intransigente e carismatico, un poliziotto di stampo scelbiano che, proprio per queste sue caratteristiche, viene promosso all'inizio del film al ruolo di dirigente dell'ufficio politico della Questura. Perfettamente caratterizzante da questo punto di vista è il suo discorso di insediamento all'insegna della legalità repressiva: "Sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo. [...] Noi siamo a guardia della Legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città malata. Ad altri il compito di educare, a noi quello di reprimere! La repressione è il nostro vaccino. Repressione e civiltà!".
Ma il razionale ed irreprensibile dottore ha un'amante che ne è l'esatto opposto: Augusta Terzi, interpretata da Florinda Bolkan, giovane donna libertina e sinuosa, perfetta -anche forse in modo troppo schematico- per mettere a dura prova l'integrità del funzionario. E' questo contrasto tra apollineo e dionisiaco, in termini di pensiero, o tra Masoch e Sade, in termini di comportamento, per usare dicotomie abbastanza collaudate, ad innescare la vicenda. Contrasto che viene ottimamente reso anche nelle scenografie di Ugo Pirro: specchi, linee morbide, drappeggi e colori scuri nell'appartamento di lei, luce, linee rigide e arredamento essenziale in questura e negli anonimi luoghi del potere.
Il rapporto morboso con l'amante funge da specchio di narciso per il dottore: ne esalta il delirio di onnipotenza e la sensazione di controllo incondizionato. Nel momento in cui la donna lo tradisce però, deridendolo, sbeffeggiandolo e soprattutto mettendone in dubbio l'autorità, lui si sente quasi in diritto di ucciderla e di costruire su questo assassinio il suo delirante teorema: se gli ingranaggi della 'giustizia' sono ben oliati, se l'insospettabilità e la certezza del diritto sono appannaggio del tutore dell'ordine allora le indagini, una volta arrivate al suo nome, dovranno naturalmente deviare per convergere verso un'altra soluzione, preservando la sua posizione.
E' su questi presupposti che si sviluppa l'indagine, a metà strada tra la surrealtà grottesca di Pirandello e la tragica lucidità di Kafka: il dottore inizia la sua partita a scacchi spargendo prove, indizi e registrazioni, cercando di indirizzare l'inchiesta sulla strada giusta, ovvero verso di lui, e al contempo osserva quasi con compiacimento l'intero apparato inquirente smantellarsi per sua stessa costituzione.
Come detto, ogni aspetto di una indagine classica è affrontato, esasperato e minuziosamente smontato. Il dottore semina una miriade di prove schiaccianti, ma nessuno lo sospetta: chi ha qualche dubbio lo tiene per sé e devia inconsapevolmente verso un'altra spiegazione, pur meno plausibile; gli interrogatori e le intercettazioni telefoniche, segno del bisogno di controllo assoluto del potere -che per sentirsi legittimato deve rifuggire il senso del limite e ampliare il più possibile la propria giurisdizione, riducendo al minimo le zone d'ombra- vengono vanificati in modo irrisorio.
Da ultimo il paradosso giunge al suo climax con il testimone, in teoria lo strumento più incontrovertibile di una indagine giudiziaria; in quella che è probabilmente una delle scene migliori del film, il protagonista indottrina con veemenza un passante su quanto debba dire e fare per inchiodarlo ma, nel momento in cui i due si ritrovano di fronte in questura, le certezze del testimone si sciolgono in un insensato balbettio. Petri sfrutta in questo caso, come aveva già fatto in "L'assassino", il meccanismo del senso di colpa, dell'atavica paura del cittadino nei confronti della legge e dello Stato leviatano, in definitiva uno dei punti di forza, ma anche una stortura, del principio d'autorità, che sfocia in questo caso nell'arbitrio assoluto.
A questo punto la machina viene incontro al dottore consegnandogli un gruppo di studentelli, sospettati per lo scoppio di alcune bombe, tra i quali si trova il giovane amante della Terzi; completare l'opera addossando la colpa al ragazzo pare sin troppo facile, vista anche la diversa statura dei personaggi (commentando la scena dell'interrogatorio Sergio Tramonti, l'attore che impersona il ragazzo, si troverà a dire: "Con Gian Maria Volontè ci fu una prova, prima di girare la scena chiave dell'interrogatorio. Fu un macello. Non ero niente."). Qualcosa però non va come previsto: il ragazzo, alter ego del protagonista, riconosciuto il dottore lo smaschera, ma decide di non denunciarlo, ribaltando i termini del suo teorema. Da una parte la sfida paranoica e dostoevskiana del colpevole al sistema di cui è parte integrante, dall'altra il rifiuto della terza via e la convinzione della fallacità della giustizia, a cui il comportamento del dottore fa gioco.
Non rimane quindi altra strada che rilasciare una confessione vera e propria: in un finale onirico, di cui in fondo non importa lo sviluppo ma solo il messaggio, il dottore torna a casa e completa la liturgia del Potere. Esposte le sue colpe al cospetto di colleghi e superiori, ne viene mondato in una surreale quanto efficace confessione d'innocenza: il Potere riafferma se stesso dichiarando priva di senso la falla che in esso si era aperta e l'assassino viene riassorbito in un meccanismo fondato sull'arbitrio incontrollato e sulla deformazione morale.
Petri affida il finale alle parole de 'Il Processo' di Kafka (ma vengono in mente anche Sartre e Borges): "Qualunque imposizione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano".
Conclusione più pessimistica e senza uscita non si poteva immaginare: la giustizia lascia il passo alla psicosi del potere ed il film, già ensoriano nel suo sviluppo, vira definitivamente al nero.
Sotto l'aspetto tecnico, oltre all'ottima regia, alle scenografie cui si è già accennato e alle musiche di Morricone, perfette anche quando usate in tono stridulo, sono da sottolineare senza dubbio le interpretazioni. Sopra tutti ovviamente un superbo Gian Maria Volontè, attore mai abbastanza valutato rispetto ad altri colleghi impegnati in generi più facili, non solo nella mimica e nella presenza scenica, ma anche nel tono e nell'impostazione della voce, stentorea ed autoritaria.
Oltre a lui da apprezzare anche la Bolkan, in un ruolo dissoluto che le si addice perfettamente, e soprattutto la pletora di funzionari tardoborbonici che gravitano intorno al dottore, Salvo Randone su tutti, zelanti quanto inadeguati al confronto con quando accade loro intorno.
Il film ebbe un grande successo soprattutto all'estero: vinse l'Oscar come miglior film straniero e il gran premio della giuria a Cannes, oltre a molti premi minori. Anche in Italia il riscontro di pubblico fu ottimo, ma si scatenarono molte polemiche sull'opportunità di girare un film in un contesto come quello descritto in precedenza.
Petri riuscì, suo malgrado, nell'impresa di risultare inviso all'intero arco costituzionale; non solo alla componente governativa e all'estrema destra, arroccate nell'aprioristica difesa dell'istituzione polizia tramite la medievale accusa di vilipendio (quando negli Stati Uniti ad esempio film su poliziotti, politici e presidenti corrotti erano e sono tuttora all'ordine del giorno, indice di una democrazia sana e di una reale libertà d'espressione), ma anche alla sinistra extraparlamentare e dei movimenti studenteschi, indignata per la rappresentazione data di movimento informe, caotico e piuttosto disorganizzato quale effettivamente era.
Oltretutto la notevole somiglianza, mai confermata dagli autori, del protagonista con il commissario Calabresi, proprio nel momento dell'istruttoria sulla morte dell'anarchico Pinelli, portarono ad una richiesta di sequestro della pellicola da parte della questura di Milano, fortunatamente invalidata dal giudice.
In definitiva quello che di Petri risulta oltremodo scomodo è la spietatezza, la ferocia dell'analisi. A differenza di buona parte del cinema politico italiano, anche di ottimo livello, da Rosi a Bertolucci a Bellocchio, il cui cinema è spesso più di inchiesta e mirato a vicende particolari (vedi "Il caso Mattei"), Petri colpisce dove fa più male (come anche in "Todo Modo"): alla radice delle istituzioni. Proprio per questo motivo gli si dovrebbero dare oggi il credito e la fortuna che solo a tratti ha ricevuto. Per il coraggio, l'attualità e la lungimiranza.
Per aver scritto il prologo di un libro che nessuno vorrebbe leggere.
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Recensione a cura di Lot - aggiornata al 24/01/2006
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