Recensione la ballata di stroszek regia di Werner Herzog Germania 1977
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Recensione la ballata di stroszek (1977)

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locandina del film LA BALLATA DI STROSZEK

Immagine tratta dal film LA BALLATA DI STROSZEK

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Con quest'opera, Werner Hezog torna a collaborare con Bruno S., attore protagonista de "L'enigma di Kaspar Hauser". Tra i due film sembra incrociarsi una tematica fondamentale: l'incapacità dell'autentico individuo di vivere secondo i canoni di una società seriale e, di conseguenza, la conduzione di un'esistenza sempre separata, gravata dal sopruso, dalla malevolenza. In questo frangente di vita, una serenità nella morte non è possibile.

Berlino: Bruno Stroszek, cantastorie girovago, esce dal carcere dopo due anni. Egli è un habitué di riformatori, prigioni e quant'altro; la sua vita si è scandita secondo un'alternanza di momenti di libertà e momenti di reclusione, anche se non sembra esserci poi tanta differenza tra i due: Bruno infatti è un emarginato, si sente tale ed è trattato come tale, sia fuori che dentro la cella. Ad un certo punto della sua vita decide non solo che questa monotona alternanza doveva cessare, ma anche che il sottofondo costante della sua esistenza doveva colorarsi di altre tinte, respirare nuove arie. La sorte gli butta addosso una prostituta, violentata dai suoi stessi protettori, e un vecchietto che è stato invitato dal nipote ad andare a trovarlo, negli Stati Uniti. L'occasione è troppo ghiotta, i tre partono per l'America. Inizia così per loro una nuova vita.

La storia è alimentata da una desolante scoperta: se i nazisti punivano i prigionieri in modo diretto e palese - parole di Bruno - la società capitalistica attua una punizione identica per gravità ma differente nel suo esercizio: lenta, subdola, estirpante. Gli Stati uniti sono il paese del riciclo, dell'investimento continuo, del reinvestimento. È un luogo non più abitato dall'utopia, un luogo in cui gli uomini si sono separati dalle cose e in cui le cose stesse non dicono più il carattere, la natura dell'individuo che le ha possedute. Ma al tempo stesso c'è una sovrabbondanza di oggetti, tutto è oggetto. Gli oggetti passano di mano in mano, sono cioè anonimi, non si impregnano di nessuna vita. Allora, è possibile solo un uso estremamente funzionale degli oggetti: gli uomini diventano semplici clienti, consumatori, luccichii nel flusso eterno e grigio del consumo smodato: in questo contesto l'uomo non c'è più, c'è solo l'oggetto.

Neanche i luoghi appaiono propri dell'uomo: se c'è stata una occidentalizzazione, se c'è stata una specializzazione in servizi, tutto ciò è avvenuto in sordina, senza che l'uomo vi partecipasse, senza che nessuno gli abbia detto niente; a un tratto accade così.

Questa misteriosa emersione di occidente ammutolisce Bruno, prototipo dell'uomo che si sveglia da un letargo pre-storico, pre-occidentale, e non capisce cosa diavolo vuol dire questa terra, in cui tutto è condotto ad un unico paradigma totalizzante ed impermeabile: come da un lato gli uccellini parlanti sono contro la "natura" dello stato occidentale, così dall'altro tutto ciò che gli è estraneo viene brutalmente assorbito: gli indiani d'America: solo dopo il trattamento della macchina omologante e commerciale, il loro sangue è stato negato e di nuovo mostrato sotto forma di operai di officine, membri del corpo di polizia, mascotte della ristorazione americana.

Herzog sicuramente ci parla di una condanna del mondo occidentale, ma il nocciolo critico credo stia qui: la separazione tra uomo e oggetto; il rimorchio ruota intorno a se stesso e impazzisce andando a fuoco, la casa che diventa un oggetto trasportabile come qualsiasi altra cosa. Qui, forse, Herzog anticipa in chiave negativa il battello di "Fitzcarraldo", o riprende, sempre negativamente, la zattera di "Aguirre". Quei veicoli naviganti erano il mezzo di un grandioso fine e insieme l'habitat della comunità impegnata a raggiungerlo; lo stesso scorrere su un corso d'acqua voleva dire muoversi in una dimensione dinamica, attiva e reattiva, che chiede ogni volta l'impiego delle proprie forze; il fiume è una potenza scorrevole, indica la sua sorgente e la sua foce, cioè il pensiero grandioso di cui costituisce il letto.
Anche la casa prefabbricata, trascinata dalla motrice, sembra un grandioso vascello ricolmo di speranze e aspettative, che sarà insieme l'habitat di coloro che intraprendono la loro impresa: la conquista degli U.S.A., il morbido benessere finale: piccole idee per piccoli uomini.

Ma stavolta il vascello naviga su una superficie dispersiva e insieme statica, terrestre: da una parte essa implica la dispersione dei fini, il disorientamento nei luoghi dell'impresa e la conseguente difficoltà di tracciare rotte capaci di procurare i mezzi atti all'impresa; dall'altra parte l'estensione orizzontale, potenzialmente infinita, non implica più le azioni del "salire" e "scendere" il fiume: ci si muove sempre nello stesso posto, si gira intorno su se stessi, il fine sembra irraggiungibile sia nel suo compimento sia nel suo fallimento. Non c'è fine perché non c'è foce.

Gli uomini non sono sospinti neanche fisicamente da una forza che li motivi, che li incoraggi: la loro vita è costituita da una serie prevedibile di atti uguali ripetuti macchinalmente. Per questo non si intravede né il fine né la coscienza della fine: gli U.S.A. sono una terra di mezzo, tra l'origine e il termine, dove o si è condannati ad una vita anonima, al pari della ferraglia maneggiata dagli uomini, o si deve nascere grandi, e Bruno, grande, proprio non lo è.

Forse la chiave di tutto il film sta nella frase che Herzog fa dire a Bruno quand'è ancora a Berlino: che fine faranno gli oggetti, i miei oggetti, che fine faranno quando io non ci sarò più? Se gli oggetti parlano per noi, vuol dire che non sono semplicemente strumenti ma gemmazioni soggettive, pezzi di sé, contorni indispensabili del nostro essere: Bruno, senza il pianoforte, non sarebbe stato quello che è. I meccanici americani o i camionisti: a loro gli oggetti sono piombati addosso, sono stati fabbricati assieme a loro: quando non saranno più utilizzati rientreranno nel ciclo, non nel senso del riciclo differenziato, ma nella ricerca ossessiva della loro utilità.
L'operaio americano che con un oggetto si mette a cercare un altro oggetto, un trattore: se trova il trattore trova anche l'uomo morto. L'oggetto parla di un uomo, e quindi si ripete la concezione "stroszekiana", ma solo in quanto l'uomo è morto; l'uomo si può ritrovare perché l'oggetto è inteso come potenzialmente riutilizzabile. Negli Stati Uniti gli oggetti parlano di uomini morti.
Gli oggetti attirano a sè altri oggetti, come se vivessero per conto loro, come se avessero un linguaggio tutto loro.

In questa dimensione di automaticità degli oggetti, vivi in quanto utilizzabili e, quindi, in un ottica di riutilizzabilità, eterni, l'uomo non si preoccupa più dei suoi oggetti, perché se lo facesse, essi morirebbero con lui. Gli oggetti sopravvivono all'uomo perché questi è troppo impegnato a svolgere una vita di falsa unanimità, dove un volto nasconde sempre un sentimento ostile: Bruno, lui che non ha filtri tra pensiero e atto, non ha neanche la possibilità di sopravvivere a queste strategie sociali: il suo volto è ciò che lui pensa.

È indicativo allora che Bruno muoia su una funicolare tristemente viva: un'immagine di forte desolazione, in cui la funivia sale per non raggiungere nulla, sale con la propria fine già annunciata (non come il fiume che non lascia intravede il suo termine, ed è per questo, appunto, che Fitzaccarldo e Aguirre proseguono finché possono, finché ci credono): ecco che arrivata in cima al pendio gira su se stessa, come la macchina fumante, e ripercorre il percorso.

In questo mondo, in cui un atto come sforzare al massimo un oggetto e distruggerlo è pensato come folle e totalmente gratuito, in questa vita automatica e degenerata, dove le macchine sopravvivono all'uomo per la loro freddezza, oppure dove gli uomini stessi sopravvivono ad altri uomini per la loro insensibilità, qui, Bruno non vuole vivere, non c'è spazio per lui: lui lo "sente" , lui lo "sa": ecco che ancora una volta, come in "Kaspar Hauser", la conoscenza arriva per vie indirette, arriva dai gesti delle persone, dai loro atteggiamenti, arriva dalla malinconica scoperta di non poter più recitare ballate, perché non c'è più nessuno che le ascolta.

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Recensione a cura di Gilles - aggiornata al 14/12/2009

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