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È questa un'opera che non avrebbe bisogno di troppe parole, e di cui chi scrive spera non offendere l'intimità in queste che seguono, sorte da una sincera e modesta ammirazione, e dall'amore per la poesia pura.
Come confidatoci dallo stesso autore, "L'albero degli zoccoli" è in primo luogo un ritratto alla madre scomparsa, il paesaggio rurale della pianura bergamasca di fine Ottocento (le prime immagini ci mostrano una campagna come in attesa, segnata dai fossi e assorta nella solennità del silenzio); dipinto, tra un autunno ed una primavera, istoriando le vicende di quattro famiglie contadine facenti parte della medesima cascina, e accompagnandole nel lavoro, nei riti quotidiani, nelle sciagure, nei sacrifici, nelle superstizioni, nelle preghiere, nel raccoglimento delle sere nella stalla in cui, riunite, separano il grano, recitano il rosario e si raccontano ameni storielle.
"Oberato" d'una leggerezza che trova il suo appoggio nella vita reale - e che la fotografia, bellissima, rispetta e avvalora - più che un rievocare, quello di Olmi è un far rivivere, riesumare abitudini e ambienti scomparsi, quasi dimenticati.
A ciò s'accostano meravigliosamente le musiche per organo di Bach, religiose e discrete, umane e assieme mistiche, alle quali s'integrano le cantate e le filastrocche paesane, le litanie sussurrate, il canto volgare a voce alta del ragazzo che scongiura la paura del buio nel sentiero di casa; e che ad un certo punto ode una melodia delicata nel cortile diffondersi dalla casa padronale, eseguita al pianoforte (è la celebre sonata "alla turca" di Mozart), si sofferma, la raffinatezza dell'aria è volutamente in contrasto con lo spirito modesto dell'opera, suona come venuta da un'altra dimensione; il ragazzo fugge, nevica piano, l'interno della casa è appena scorto in un salotto borghese velato non dall'invidia, ma da una contemplativa e uggiosa malinconia.
Se pensiamo a "Novecento" di Bertolucci, o a quell'altro immenso (e ahimè pressoché dimenticato) ritratto d'epica contadina che fu "La terra" di Dovzenko (seppur qui ci trasferiremmo nelle campagne russe), ci accorgiamo di come nell'opera di Olmi manchi totalmente quella componente d'odio che incitò alle lotte di classe, presente invece nelle due pellicole sopra citate. È questa per me un'alta dichiarazione di cristianità dell'autore, che trova il suo motivo nell'atto misericordioso e nel sentimento coraggioso del perdono. I suoi contadini sono persone pie, povere, umili, acconsenzienti e connaturate al ritmo lento e perpetuo della campagna; ai luoghi calmi cadenzati dai silenzi, restii di musiche e dispersivi di lievi suoni: quali lo scorrere pacato dei torrenti, il suono delle campane, il rimuoversi del fieno, i versi degli animali, il rumore dei macchinari, che Olmi ci avvicina rispettosamente al fine di rendercene partecipi.
Il suo è un raccontare dopo avere ascoltato, narrare la storia come udita dai nonni che la raccontano ai propri nipotini. Un ripercorrere amorevolmente attraverso le radici, la cui fatica, che sale lungo il tronco della vita, nutre di linfa e dona poetici fiori e frutti sapidi ai rami.
L'invettiva si dissipa, dunque, nelle azioni umili e solidali; come il fare la carità ad uno storpio che passa di casa in casa, o l'assumere come garzone un ragazzo la quale madre vedova è costretta a frantumarsi la schiena come lavandaia: è dove il viaggio spensierato delle bambine che portano il carretto dei panni sporchi ci conduce, alla donna sola che immerge le mani nell'acqua algida e frega le lenzuola.
È questa la pienezza del vivere, trovata dentro l'indigenza dei suoi individui, che avvalora il gesto semplice e mai insignificante, come lo spargere dello sterco di gallina nell'orto gelato, che porterà alla maturazione miracolosa dei pomodori. O trova espressione dolcissima nella storia d'amore, casta e commovente, che ha inizio con un "buonasera", vissuta con pazienza in fugaci incontri dai due giovani, che a breve diverranno sposi novelli.
Il viaggio di nozze di Stefano e Maddalena, che avviene verso la fine del film, risulta essere l'unica escursione, quasi di manzoniana memoria, di Olmi nella storia dei testi; in una Milano - che in quei giorni veniva ad essere da scenario ai moti popolari - splendidamente accennata, raggiunta discendendo il fiume Adda, e vissuta più che altro nella clausura e nella compostezza della casa d'accoglienza per orfanelli, in cui i due sposini si recano a far visita a una suora, zia di Maddalena.
Trascorreranno in quel luogo la prima notte, e faranno ritorno a casa con un bambino: "perché a questo mondo bisogna aiutarsi a vicenda".
Ma è anche aspra - e non solo bonaria - la realtà della pellicola (si veda per esempio la scena dell'uccisione del maiale), e precaria a tal punto che la malattia d'un bovino può gettare nella sciagura un'intera famiglia, prostrare la vedova all'implorazione, indurla a riempire un fiaschetto d'acqua benedetta (lo stesso elemento, l'acqua, è ora crudele e ora divino, ora freddo e ora abitato da "tante bestioline piccinine piccinine"), dar da bere quella all'animale malato, e confidare nella fede e nella provvidenza; che, per questa volta, ascolta e risponde alle preghiere. Irrequieta talvolta, come nei litigi continui tra padre e figlio dei Finard. Ma è soprattutto una realtà pervasa dalla luce dell'attesa (siamo nei pressi del "Sabato del villaggio" leopardiano); attesa alla primavera, al crescere in anticipo dei pomodori, al giorno delle nozze, alla venuta al mondo d'un bambino; avvenimenti fausti ma che al contempo annunciano nuovi stenti e nuove rinunce; e che contengono, a loro volta, momenti di grande amarezza; come a fine inverno l'arrivo del giorno della Madonna, in cui viene festeggiato il miracolo della lacrimazione d'un affresco. Alle scene della giornata cariche di movimento e vitalità, a sera inoltrata, il papà torna ubriaco al casolare (ci siamo già trasferiti alla nostalgia de "La sera del dì di festa"), mentre Finard trova una moneta smarrita da qualcuno per terra e scappa via, come un ladro: la provvidenza, questa volta, invece di donare toglierà.
Il Novecento è stato il secolo che più ha subito cambiamenti.
L'avvento dell'asfalto e lo sviluppo industriale e produttivo hanno trasformato radicalmente l'ambiente e le abitudini dell'uomo; ai quali è seguito il progresso tecnologico e mediatico; sono scoppiate guerra che hanno interessato il mondo intero; espansesi le metropoli alienanti. E se da un lato ciò ha innescato nell'arte una serie d'entusiasmi (si pensi ai futuristi di inizio secolo) che ne esaltarono accelerandone, in concomitanza al contesto in cui erano contenuti, l'esuberanza evolutiva; dall'altro accese in alcuni artisti un sentimento opposto, quello della conservazione e dell'attaccamento ad una tradizione e ad una genuinità divenute precarie e trovatesi, così, a rischio d'estinzione.
Da qui la scelta del regista di adottare attori non professionisti, persone comuni prese direttamente dal luogo; un accorgimento tutt'altro che nuovo, ma che nella rappresentazione di Olmi assume una funzione differente da quella che spinse i neorealisti a impiegare il medesimo espediente: ovvero ha qui il valore di resuscitare ciò che è desueto e scomparso da tempo, eppur vive nei ricordi e nei racconti dei nostri antenati. Dargli colore verace, sapore del pane appena cotto, suono vicino, odore di bestiame e profumo di fiori, sudore sul collo e piaghe alle mani.
La ricostruzione degli ambienti, degli indumenti, delle usanze è accurata ed eccezionale. Lo stesso utilizzo del dialetto e della lingua parlata - che è stata un'altra riscoperta della letteratura del Novecento - si pone come una scelta necessaria per Olmi, che lo accosta (e ad un certo punto, a favore della verità, in quest'opera che possiamo definire profondamente religiosa, s'ode addirittura una bestemmia) al latino delle preghiere pronunciate con l'accento bergamasco.
Ma "L'albero degli zoccoli" resta soprattutto una raccolta poetica, ricca e vitale, schietta e purissima, una dedica alla grande madre- terra affettuosa e sofferta, illuminata attraverso la luce calma di una candela. Innumerevoli piccoli episodi, frasi genuine, detti popolari, gesti semplici, paesaggi, contribuiscono a crearne la stesura lirica, mestamente, e ad offrine sempre nuove scoperte ad ogni rilettura, riuscendo ovunque a stimolare i sentimenti più limpidi di chi osserva con attenzione.
La storia principale, della quale ancora non si è fatto menzione, è in verità quella della famiglia di Batistì, con cui l'opera si apre e si chiude: il padre che, spinto dagli incoraggiamenti del parroco, decide di mandare a scuola il suo figliolo, dopo molte perplessità, quasi lo studiare fosse una mancanza di rispetto alla vita contadina della comunità; mentre la moglie aspetta un nuovo bambino.
Quella di Batistì è la figura più vitale dell'opera, e anche la più positiva. Ma per far studiare il figlio bisogna affrontare diversi sacrifici. Un giorno, il piccolo torna a casa con uno zoccolo rotto. Non c'è possibilità di accomodarglielo o di comprargli delle nuove calzature. Batistì prende allora la decisione di abbattere un piccola pianta ("L'albero degli zoccoli") tra le centinaia erte nelle sterminate proprietà del padrone, per fabbricarsi lo zoccolo da sé.
Ma quando il padrone viene a conoscenza del fatto, ecco compiersi la punizione solenne, severa ai nostri occhi oltremodo, spropositata in relazione alla venialità del peccato commesso, ingiusta ma incontestabile. Nella stagione in cui il lavoro dei campi rifiorisce, i Batistì, che avevano appena ricevuto in dono un bimbo - gravati ora della sua venuta - e che nutrivano grandi speranze e progetti per il figlio che aveva cominciato da poco a studiare; vengono allontanati per sempre dalla cascina, condannati ad un vagabondaggio senza meta, alla povertà assoluta, alla fame e con ogni probabilità all'accattonaggio.
La morale conclusiva si avvicina a quella amara del Verga, in cui gli umili che provano un'elevazione sociale vanno ineluttabilmente incontro ad una tragica sconfitta.
È primavera, tristemente. L'ultimo sguardo di Olmi è quello della costernazione e del compatimento da parte dei membri delle altre famiglie, che assistono impotenti quella povera gente, da dietro le finestre dei propri alloggi, caricare le poche cose rimastegli, montare sopra al carro, e nella sera allontanarsi dalla cascina verso chissà dove.
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 12/11/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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