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Opera seconda del regista franco-tunisino Kechiche, salito alla ribalta nel nostro paese grazie al suo "Cous cous, "La schivata", pellicola premiata a Venezia nel 2003, è una strana commistione tra docu-fiction, film adolescenziale e storia di denuncia.
Girato in presa diretta senza colonna sonora con uso ed abuso di camera a spalla ed una preferenza per i primi e primissimi piani (tecnica mutuata dal "Dogma"), il film si avvale di interpreti per lo più non professionisti, che più che recitare vivono una storia in maniera realistica.
Siamo nella periferia parigina, la cosiddetta banlieue; il panorama è caratterizzato da casermoni senz'anima e da strade asfaltate, ciuffi di erba qua e là.
Gli abitanti sono di varie etnìe: cinesi, africani e maghrebini; i francesi "autoctoni", dalla pelle candida, sono rarissimi.
Ci si aspetta la solita storia dura di degrado tra droga e prostituzione minorile, ed invece Kechiche offre un aspetto del tutto inedito della vita di periferia: la dedizione degli insegnanti, di alcuni insegnanti che hanno come compito quello di far riscattare questi giovani altrimenti destinati a una vita grigia.
Il film parla di alcuni adolescenti e delle loro relazioni interpersonali, ma soprattutto è la cronaca di un lavoro scolastico: le prove per la rappresentazione del "Gioco del caso e dell'amore" di Marivaux, autore settecentesco. Quello che potrebbe stupire e che potrebbe essere d'insegnamento a quanti non riescono a interessare i propri studenti anche in altri contesti sociali è l'interesse e la polarizzazione che i ragazzi hanno nei confronti di questo lavoro. I ragazzi si dividono così tra quelli che prendono sul serio l'incarico ricevuto dalla docente a quelli che lo usano come pretesto (si pensi a Krimò, il giovane maghrebino protagonista della vicenda), a quelli che invece lo snobbano (l'amico fin troppo fedele di Krimò).
Le prove della commedia e le storie dei giovani protagonisti si incastrano creando una narrazione originale e avvincente che, partendo appunto da una matrice teatrale ha nella parola e nel dialogo i suoi punti di forza.
I protagonisti parlano dall'inizio alla fine usando spesso termini duri ma sempre senza trascendere. Il regista lascia intendere che dietro ogni famiglia dei giovani della vicenda si nascondono storie anche di degrado (il padre di Krimò è in carcere, un'altra ragazza di religione islamica è comunque vittima di un forte controllo da parte di padre e fratello maggiore), ma quello che traspare è una visione pulita della vita di banlieue. Gli unici "sporchi e cattivi" sono i poliziotti che picchiano senza motivo, spinti da un'eccessiva prudenza e da un forte pregiudizio sociale.
Kechiche si rivela rivoluzionario confezionando una storia ambientata in un quartiere ad alto rischio che è invece tutto tranne che il solito tran tran di violenze e disagio.
Da vedere per riflettere, tralasciando il pessimo doppiaggio romanesco, che per quanto possa essere simpatico nella Saint Denis del proletariato multietnico è un decisamente fuori luogo.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 10/03/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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