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Il regista bolognese ci propone da anni una serie di narrative molto dense, a spettro intero sulla nostra esistenza e sui casi dell'umano; un po' come nei romanzi ottocenteschi, in cui la materia trattata non verte solo su sfumature rarefatte e cerebrali, come nel cinema francese, né tanto meno su vicende forzate e paradossali come in quello d'oltre oceano, ma con sano realismo sui temi reali e pragmatici del nostro vivere. Emergono così i "fondamentali" dell'umano, come l'amicizia, l'amore, le vocazioni professionali e certi rapporti parentali, visti sempre in una chiave poetica dolente e realistica; non quella romantica e sdolcinata di un compiaciuto sentimentalismo, ma quella coscientemente malinconica di chi, percependo la fatalistica casualità della condizione umana, ne desume una coscienza vigile e mesta, snocciolando il racconto sul filo della memoria.
Non a caso "La seconda notte di nozze" è ambientato nell'Italia del primo dopoguerra, di cui ripropone gli aspetti più meschini, psicologici ed economici, in luoghi ed ambienti quasi surreali, per captare la difficile e sofferta atmosfera del tempo. Come peraltro si rileva anche nella descrizione di certi personaggi di contorno, come l'attore fallito e la sua compagnia di guitti che, con la loro carovana mobile, ricordano i modi degli Amarcord felliniani.
Ma questi elementi costituiscono solamente il contesto "ambientale e scenografico" del film, che tocca invece corde più profonde, fuori del tempo e dalle contingenze, come in una fiaba psicanalitica, dove i personaggi e le loro vicende assumono profili chiaramente simbolici.
Primo di tutti il protagonista (Antonio Albanese), non casuale dimostrazione di quanto appena detto: psicolabile, a lungo ricoverato in strutture psichiatriche, traumatizzato dagli elettroshock, ne fuoriesce con candore di giglio, ma con una fortissima carica autopunitiva, tentando un riscatto verso gli altri col disinnescare bombe e mine abbandonate della guerra. La sua vis autodistruttiva, segno drammatico di mancanza di autostima e del disamore verso sé, viene meno quando il suo cuore torna a battere per la ex cognata (Katia Ricciarelli) ritornata nella vecchia masseria di famiglia per sopravvivere alla guerra col figlio, mariuolo impenitente (Neri Marcorè). Si dimostra che l'atto eroico, come l'arte e la poesia, vengono perseguiti per motivi catartici in presenza di sindromi depressive, mentre una psiche allegra, confortata dall'amore e dall'appagamento fisico, ci rinuncia volentieri, attaccandosi sanamente alla vita.
Comunque il personaggio delineato dal bravo Albanese avvince lo spettatore come il principe Myskin ne "L'idiota", richiamandoci anche al dettame cristiano del povero di spirito, beato perché tale, raffigurazione simbolica dell'angelo, come forza del bene, a fronte della forza malefica opposta del diavolo incarnato dal disonesto rampollo della Ricciarelli, che, come nulla fosse, concederebbe la madre in pasto ad un camionista di passaggio. Il quale diavolo, poi, è suadente ed ambiguo proprio come lo si dipinge nella lezione cattolica: capace quasi di (finti) pentimenti, perché dilaniato dal senso di colpa (come succede un po' a tutti noi con le nostre dicotomie interiori). Vediamo ciò nel finale del film, quando lusinga lo zio al momento di partire con la compagnia di giro.
Volendo il cerchio simbolico si chiude con le presenze dei personaggi femminili: la madre, "madonna" con il figlio, ma pronta a prostituirsi per bisogno, fortemente combattuta tra il calcolo opportunistico ed un residuo ritegno nel profittare del povero demente; le zie, altrettanto calcolatrici, inevitabilmente competitive nei confronti della nuova arrivata, che rendono precari gli equilibri familiar-esistenziali prestabiliti. In questo ruolo risulta davvero magistrale l'interpretazione di Marisa Merlini ed Angela Luce, al tramonto forse dei loro giorni, ma non certo della carriera, alla quale aggiungono con questa prestazione un sigillo di nobiltà indelebile.
Come non si può dire altro che bene di Katia Ricciarelli, al debutto nel cinema, ma capace di estrema e convincente misura; la rivedremo volentieri in altre parti.
Complimenti comunque a Pupi Avati per il coraggio e la lungimiranza di questa scelta.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 26/11/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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