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Chissà per quale motivo, certa critica si è tanto scagliata a sfavore del film dell'ungherese Gabor, parlandone come di un melodrammone di maniera.
Evidentemente i critici, loro sì "di maniera", gridano allo scandalo quando una storia attinge nella realtà comune di drammi consueti e popolari, come fossero di per sé fasulli ed ignobili.
Ma, "La sposa bellissima" non è "Elisa di Vallombrosa" o "L'isola dei famosi": anzi l'isola degli sconosciuti, di tanta povera gente che, per mangiare, è obbligata a sradicarsi dal contesto nativo, abbandonando famiglie, ricordi ed affetti. Per finire poi, come il padre del giovane protagonista, disoccupato e border line pure in Gemania.
Di qui il messaggio, di per sé positivo, del film: l'America è da noi, hic et nunc, anche se non ce ne accorgiamo. Come si palesa agli occhi del giovane sulla strada del ritorno, dopo la tremenda delusione della conoscenza del padre.
Dal treno, sembra riscoprire il fascino delle colline e della campagna siciliana; così come, tornato tra gli amici in parrocchia, si sentirà finalmente avvolto da amicizie ed affetti veri, come quello della giovane innamorata.
Ma, prima di arrivare a considerazioni tanto mature, il giovane passa, come nella vita reale, attraverso una lunga serie di sofferenze ed esperienze dolorose: la morte della madre, la gelosia per il nuovo uomo da lei amato, l'educazione sentimentale del primo amore giovanile, e quella sessuale con la bella amica (Stefania Sandrelli) di mamma Maria.
Fino a quando, morta la madre, interpretata dall'ottima Angela Molina, il ragazzo parte verso la Germania per farle giustizia, uccidendo il padre (reo di averla abbandonata giovane, come una vedova bianca, rifacendosi un'altra famiglia).
Poi, verificata l'effettiva situazione, subentra nel giovane una serena e matura compassione, che lo induce a rinunciare al progetto di morte, abbandonando il padre al suo destino.
Storia vera, dunque, di povertà originaria, di emigrazione, di passioni e sentimenti reali, di gente più o meno modesta, come il giovane medico borghese che si innamora di Maria, corrisposto teneramente.
Storie giusto come nella vita quotidiana, che di melò non hanno proprio niente, perché vive e sofferte, con fatalistica sobrietà; non con i toni melensi, caricati e poco credibili del feuilleton.
Tale moderazione di toni, per concludere, è il primo vanto del film, mai caricato e fasullo. Vi domina, invece, una sobrietà diffusa, nel racconto sfumatissimo dei momenti di passione, nella delicatezza dell'amore madre-figlio, nella stringatezza della storia d'amore di madre e medico.
Il tutto raccontato senza verbosità, accentuazioni moralistiche, o pregiudizi sicilianoidi; con grande compassione per le umane debolezze, senza compiacimenti folkloristici, come capita troppo sovente nel cinema italiano.
Una nobiltà nell'osservare la povera gente che ci ha ricordato il Visconti de "La terra trema" o di "Rocco e i suoi fratelli", o certo cinema di Pasolini; una cosa che, forse, poteva fare solo un ungherese, per nulla contaminato dalla "maniera" del folk siciliano.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 25/07/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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