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Donald Sullivan, alias Sully, è un carpentiere ultrasessantenne che vive da scontroso solitario in una piccola cittadina dello stato di New York: North Bath. Alle prese con gli acciacchi dell'età e con gli inevitabili bilanci esistenziali, Sully cerca d'essere un buon nonno con il nipotino di sette anni, forse per cancellare il rimorso di non aver saputo fare a suo tempo il mestiere di padre. Intanto si trascina nella routine invernale della provincia americana. E quando la moglie del suo datore di lavoro, più giovane ma invaghita di lui, gli prospetta l'idea di ricominciare assieme un'altra vita, lui si rende conto che è troppo tardi e che è giunto a un'età della coscienza in cui non è più possibile illudersi o barare.
Da tempo non si vedeva un film statunitense così pianamente crepuscolare, così capace, cioè, di raccontare la banalità quotidiana di esseri marginali e sperduti (e "Twilight", appunto "crepuscolo", sarà il titolo dell'opera bentoniana successiva, del 1998). Fra vecchie case vittoriane diroccate e reperti dismessi d'archeologia industriale, in uno scenario di sporchi pub decrepiti e muri scrostati, Robert Benton descrive, con pennellate leggere, immagini ingrigite, luci piatte, toni smorzati e amarognoli, un'America vecchia. È invecchiato pure il vitalistico sogno americano, ancora presente sullo sfondo e capace d'incantare ma non più sino alla fine, quando invece lo si scopre essere soltanto una "fuga dalla realtà", come il nome del residence che avrebbe dovuto arricchire i malcapitati paesani e che viceversa si svelerà un buco nero per le loro finanze.
"Le stagioni del cuore" (1984) sono lontane: ora, lungo la via principale di North Bath ammantata perennemente di fanghiglia nevosa, s'aggira un'umanità disorientata e immalinconita, che s'interroga sulle colpe dei padri senz'avere il coraggio di mettere a fuoco l'insipienza dei figli. Però si tratta di un'umanità doma solo a modo suo: "Sto correndo al rallentatore", dice Paul Newman-Sully con il ginocchio malridotto e claudicante. A North Bath sembra che tutti vogliano correre e che tutti siano costretti a farlo arrancando faticosamente. Si sforzano di correre poiché non vogliono saperne di mollare, di lasciarsi scappare qualcosa che sappia ancora di vita; ma sono inchiodati dalle troppe ferite nella carne e soprattutto nell'animo, ferite inguaribili che continuano a dolere e a martoriare.
Miss Beryl ha sostituito il proprio figlio banchiere con Sully, il quale non è mai riuscito a essere padre e che non è mai stato figlio; Peter, il non figlio di Sully, non va d'accordo con la moglie; Toby ha un rapporto infelice col marito Carl e gioca a flirtare con Sully. Il titolo originale del film, "Nobody's Fool", dice meglio e di più: qui nessuno è scemo, nessuno si lascia prendere in giro da nessuno. In questo senso, ogni personaggio è intercambiabile come variazione dell'unico tema di chi non sa più cosa fare e guarda con scetticismo qualsiasi proposta che puzzi di seconda chance. Al figlio Peter che gli domanda: "Se non hai fatto il padre con me, perché fai il nonno con Willy?", Sully risponde: "Perché da qualche parte bisogna cominciare". Tuttavia gli esiti non sono mai granché esaltanti. Altrettanto avviene nell'attrazione, smaliziata eppure castissima, fra Newman e la Griffith, che recita il ruolo della moglie delusa d'un Bruce Willis assente dai credits del film. Ciascuno di loro è un piccolo e delicato ritratto di chi è consapevole della propria fine ma l'aspetta con titubanza, nell'ambivalenza d'una non rassegnata tranquillità. In una scena aspra e poetica, si vede la neve cadere all'esterno come se volesse sommergere Jessica Tandy (qui alla sua ultima apparizione) colpita da ictus dentro la propria casa. È la morte che scende sotto forma di fiocchi bianchi, i quali tutto abbracciano e coprono con il loro rigido rigore nonostante ogni tentativo d'opporvisi. È la stessa patina di ghiaccio che pervade l'intera ambientazione della pellicola, una natura che, inclemente verso le sorti degli uomini, assedia i protagonisti come in "A trenta secondi dalla fine" (1985) di Konchalovskij (su sceneggiatura originale di Kurosawa) e come al termine de "La Cosa" (1982), in cui Carpenter lascia i due sopravvissuti nell'attesa che il gelo artico li annienti. Tramite un'atmosfera così pacatamente funerea, Robert Benton, classe 1932, dipinge un film romantico sia per l'impasto di luci smorzate sia per i fremiti sottili che lo scuotono e lo riscaldano, e ci consegna delle immagini tra le più struggenti, sobrie e pudiche dello scorso fine secolo.
A qualcuno "La vita a modo mio" può sembrare un'opera anacronistica a causa dei suoi picchi emotivi che il racconto disloca nel clima del periodo natalizio. Ma la filantropia con cui la macchina da presa accudisce discreta ogni singolo personaggio attesta una dedizione smisurata del regista per questi individui pazienti, fragili, instabili affettivamente. Ne è un limpido esempio la sequenza della riappacificazione tra Sully e Rub: la carrellata in avanti verso Rub, dagli occhi lucidi e sofferenti, con il successivo dialogo tra i due impegnati a riallacciare i nodi della loro amicizia, il supremo valore della solidarietà, è una scena d'antologia della condizione umana.
Il film non si apre a facili ottimismi, non offre soluzioni di fronte alla drammatica miseria del vivere. L'unico sincero epilogo per i suoi protagonisti giornalmente costretti a strascicarsi parrebbe essere solo quello proposto nell'immagine conclusiva, dove un Sully esausto sprofonda nella poltrona e si lascia andare a un torpore che è sospensione tra il sonno e la morte. Però Benton, nei suoi due lavori seguenti, ribalterà questa tesi gettando arzilli vecchietti nei piaceri del sesso: sempre Newman nel già citato "Twilight" e soprattutto Hopkins ne "La macchia umana" (2003).
Mauro Lanari
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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 24/09/2008
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