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Perché mai la critica sia stata così tiepida con questo delicato film della spagnola Coixet è difficile da spiegare. Forse perché abituati, come ormai tutti sono, ai toni roboanti e fragorosi, alle violenze raccontate nel minimo dettaglio, alle scene plateali e agli effetti facili, viene meno la capacità di ascoltare le voci sussurrate, i moti profondi dell'anima e le immagini simboliche: in pratica il canto dolce della poesia... e la vita segreta delle parole!
E di parole proprio si tratta nel film. Del non detto che cova nel profondo delle nostre anime e che fatica ad emergere, prorompendo poi in una esplosione catartica e liberatoria, o avvincendoci sempre di più nelle catene del silenzio e dell'incapacità di comunicare, con meccanismi nevrotici o psicotici.
Autistica sembra, infatti, agli inizi la bionda protagonista, chiusa in un ostinato dolore, che l'ha resa, non a caso, sorda; anche se la causa di tale malessere non è come solitamente accade, di natura "affettivistica", ma di origine traumatica. Le strade del suo destino vanno ad incrociarsi con quelle di un tecnico, provvisoriamente accecato da un incidente su una piattaforma petrolifera del mare del Nord. Nel suo mese di ferie la giovane infelice decide di curarsi di lui come infermiera, iniziando un rapporto di progressiva e reciproca confidenza, che li porterà entrambi a nutrire fiducia nell'altro, affidandogli con muta commozione il proprio progetto esistenziale: in toto, come se il mondo esterno non esistesse (chi ricorda "David e Lisa"?), e fossero isolati su un'isola deserta.
Dove la facile metafora, espressa pari pari dal malato in lettiga, coincide con l'idea centrale del film, ambientato su una piattaforma marina disperatamente isolata nei mari artici, raggiungibile solo con gli elicotteri.
Una delle principali bellezze del film, l'isolotto artificiale, si staglia sulle acque come una visione surreale, valorizzata da colori plumbei su sfondi rossomielati, o di notte, da una miriade di luci policrome che gli conferiscono un aspetto fantascientifico, da navicella spaziale. E abitanti di uno shuttle interplanetario sembrano anche i pochi altri abitanti della piattaforma, ognuno a modo proprio in fuga dalla civiltà e dalla vita reale.
Nella parte finale del film la storia si evolve in una seconda fase: data la stura ai reciproci, penosi, segreti nascosti, e cioè, entrati in comunicazione e/affettiva, i due comprendono di essere essenziali l'uno all'altro, e trovano una chiave di sopravvivenza nella vita a due. Con un'ottica veramente femminile, se vogliamo; ma, bisogna dire, senza eccessivi sdilinquimenti, con accenti sentimentali credibili e mai mielosi.
In questo sussiego sta uno dei grandi meriti della regia, che sa raccontare le cose più crude in modo asettico, rinunciando agli effetti facili della violenza e della morbosità (una regia convenzionale ci avrebbe sciorinato per filo e per segno la dolorosa vicenda degli stupri e delle sevizie subite dall'infermiera e dall'amica nella guerra in Jugoslavia; oppure la storia di tradimento matrimoniale occorsa al paziente infortunato...).
Al contrario il film inizia con il dramma dell'incendio e dell'infortunio in modo sfumato, senza insistere sui particolari più cruenti, continuando per brevi accenni sulle situazioni più spinose; per culminare nella scena forse più bella, dove la protagonista mostra solamente i segni rimastile delle sevizie subite, con estremo ritegno, lasciando intendere, senza scendere in particolari crudeli.
Carico di simboli dell'umano vivere (in solitudine sull'isolotto artificiale, o tra i dolori delle guerre), il film ha anche una precisa valenza psicanalitica, parlando apertamente del bisogno di comunicazione e di affettività dei singoli, con la possibile panacea di una soluzione a due (prettamente femminea... ma tant'è!); non a caso l'unico personaggio a cui sembra ancora legata la bionda infermiera è per l'appunto una professionista della psiche.
Al di là dei meri aspetti di contenuto, restano a "La vita segreta..." meriti "filmici" di primo ordine: una fotografia affascinante, soprattutto nella paesaggistica, sceneggiatura e dialoghi asciutti ed essenziali, sempre credibili, interventi musicali molto appropriati, e, infine una recitazione ineccepibile e memorabile da parte dei due protagonisti (di lei in particolare, con una serie di primi piani che... attingono all'anima).
Altro grande pregio, se vogliamo di natura squisitamente letteraria, è la capacità di "evocare senza mostrare"; e cioè di comunicare sensazioni ed emozioni "senza bisogno di dire ed illustrare", tipico del linguaggio "preteritivo" (non dico, ma dico...). Questa modalità di comunicazione, per definizione retorica, è invece validissima ove si vogliano salvare nel racconto sentimenti veritieri di pudore, ritegno e vergogna, di certi personaggi (...la sventurata rispose...!!).
Come era nel film e come è dell'umano: non tutti, di fronte a un dolore, gridano e si strappano i capelli in pubblico... a molti sfugge solamente una furtiva lacrima... altrettanto significativa!
Se non ancora di più, ripensando al film: con il semplice dialogo, per quanto lento e lungo, dei due sofferenti, senza ricorso ad immagini reali, si avvertiva una tensione drammatica vivissima, non minore che di fronte alla fotografia; esattamente come succede nei libri, dove la parola scritta riesce ad evocare la realtà ancora più ricca, unica ed inimitabile, della nostra fantasia e dell'interiorità recondita, rendendoci partecipi per transfert del fatto creativo.
E come stupirci, sapendo che il film è stato prodotto da Almodovar? (tra l'altro è difficile non pensare al suo "Parla con lei")... Difficilmente, io credo, il grande genio spagnolo avrebbe approvato ed avallato una produzione meno che superlativa... Per questo mi stupisco della tiepida accoglienza di molti!
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 28/03/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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