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Un bufalo si slega dal tronco di un albero cui gli uomini lo hanno legato, e si allontana nella giungla.
La giungla è viva.
Esseri misteriosi vi si manifestano e la animano. I suoi uccelli cantano una lingua arcana, pervasiva. Di notte, sul limitare della giungla, può capitare che torni a farci compagnia una moglie defunta. Contano i soggetti, ella racconta, non i luoghi: "il paradiso è un concetto sopravvalutato".
Nella giungla, può capitare che nostro figlio abbia fotografato un ectoplasma dalle sembianze di scimmia; e, attratto da quella figura, può capitare che egli, andato alla sua ricerca, sia scomparso nella giungla. Ma può capitare faccia ritorno, trasformato in una scimmia fantasma: trovata colei che inseguiva, congiuntosi a lei, si è mutato in un essere simile. Nella giungla, sono tante le scimmie fantasma, sagome nere dagli occhi di bracia che ci guardano mute.
Nella giungla, anche gli insetti hanno un'anima.
Le colpe del nostro passato sono quanti insetti abbiamo ucciso (e continuiamo a sopprimere, con una racchetta elettrica); le colpe del nostro passato sono anche i troppi comunisti che si è ucciso. Per questo adesso siamo malati di reni.
Nella giungla, in una vita lontana siamo stati protagonisti di un incontro d'amore tra una principessa e un pesce gatto, nel lago formato da una cascata che risplende di luce. Ella ha lasciato cadere i suoi monili preziosi sul fondale torbido; si è sentita desiderata per la giovanile bellezza del suo riflesso nell'acqua.
Nella giungla, si fanno sogni orwelliani. Un'autorità folgora giovani militari con un fascio di luce: immobilizzatili in istantanee fotografiche asciugate di vita, li fa scomparire dal presente e li spedisce lontano, in un altrove che non è qui, non è ora.
Nel cuore della giungla, c'è una caverna. Sulle sue pareti rilucono bagliori fosforescenti, che chiedono buio per esser visti... Le torce ostinate con cui li si illuminano, li annullano e ne annullano la magica fantasmagoria.
In questa grotta esiste una pozza, un residuo di brodo primordiale in cui nuotano pesci primigeni.
In questa grotta, si ricorda di essere nati a una vita precedente; ma non si ricorda che forma di vita, se animale o umana, maschile o femminile.
Lì tuttavia sta un'origine; e lì può aver luogo una fine. Succede che in quella grotta la nostra moglie defunta, insieme alla cognata che si prende cura di noi, ci liberi – noi malati di reni – dei fluidi che il corpo non filtra bene.
Il nostro funerale ha luogo lontano dalla giungla, nello squallore desolante di un tempio rischiarato da idioti lumini al neon, che nulla possiede di spirituale.
La città/civiltà/modernità non porta traccia dello spirito della giungla.
Il ragazzo amico di famiglia è diventato monaco nel tempio, come aspirava, ma non si vede di un monaco cosa abbia oltre l'abito. Mentre egli guarda se stesso guardare la televisione in una squallida stanza d'albergo, in abiti laici se n'è andato in uno squallido localino deserto, zeppo di altri deprimenti lumini al neon. Lì trasmettono una triste musica di plastica... che accompagna i titoli di coda.
Lo spirito non può sopravvivere in questi luoghi senz'anima; la nostalgia della giungla ci assale intensa.
La giungla e la città
Il modo di intendere il cinema da parte di Apichatpong Weerasethakul – autore thailandese formatosi negli Stati Uniti che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes 2010 con questo suo quarto lungometraggio (di lui è stato distribuito in Italia il film del 2004 "Tropical malady") – ricorda in certo qual modo Werner Herzog. Il rapporto tra la giungla e il consesso umano rimanda ad un'analoga dialettica tra l'uomo, e una natura che conserva un mistero indicibile.
In particolare, "Lo zio Boonmee" ci ha fatto venire in mente "Fata Morgana" (e i successivi film di Herzog che ne declinano temi e forme, da "Apocalisse nel deserto" a "L'ignoto spazio profondo"). Herzog: non per il peculiare stile con cui il cineasta di Monaco allude alla misteriosa armonia che ci precede: Weerasethakul vi allude, al contrario di Herzog, in modo sì contemplativo, ma piano e sereno, del tutto privo di enfasi e magniloquenza (e però con una ironia di fondo che possiede il gusto demistificante del paradosso, e in questo di nuovo ricorda Herzog).
Soprattutto, "Lo zio Boonmee" ci ha ricordato "Fata Morgana" nella sua parte finale, pregna di squallore e desolazione, così simile alla degradazione della terza parte del film di Herzog del 1970 (ironicamente intitolata "L'età dell'oro").
L'affinità è soprattutto tematica (nello stile, invece, Weerasethakul ricorda più Shoei Imamura – emblematica la sequenza della principessa e del pesce gatto, che fa venire in mente anche Borowczyk): questo film thailandese esprime la perdita di un'armonia originaria, da parte dell'uomo, che invece sopravvive nella natura, ma appare indecifrabile.
Weerasethakul non tenta di spiegare: dietro a quelli che paiono simbolismi oscuri o astrusi, non si cela probabilmente nessuna personale filosofia, né visione d'insieme che pretende di essere coerente.
Si percepisce, ovviamente, uno spirito orientale che ci è estraneo. Anche per questo il suo cinema è interessante. Ma per un pubblico occidentale, che non è abituato a vedersi così scomposte e ricomposte di fronte agli occhi le usuali dicotomie concettuali tra vita e morte, immanenza e trascendenza, corpo e spirito, il film di Weerasethakul può risultare "incomprensibile" e creare distanza.
Invece secondo noi è importante soffermarci sulle sue allusioni evocative, sulle sue rarefatte immagini visionarie, almeno a un primo stadio d'analisi (perché senza dubbio un film come questo si presta a dissertazioni dotte e più complesse).
La contemplazione di fenomeni anche ordinari, ma colti in una prospettiva alterata, inusuale o fantastica, rimanda a una realtà ultrasensoriale. Ma non sempre questa contemplazione ci regala un senso usuale di bellezza, né il più delle volte ci si svela appagandoci con una sua immediata pienezza di senso (tanto che, gravati pure dalla lentezza quasi estenuata con cui la "narrazione" procede, il film può alienarsi il nostro interesse per una superficie apparentemente priva della forza e del fascino del mistero). Eppure proprio grazie a quella lentezza scaturisce la magia; e attraverso di essa – è da qui che occorrerebbe partire per apprezzare la novità dello stile – si viene lentamente calati in una dimensione aliena. Occorre del tempo per familiarizzarvi, come ce n'era occorso ad esempio dopo un primo incontro con Lynch.
Dal primo incontro con un film di Weerasethakul si esce accompagnati da presenze fantasmatiche che non fanno paura; suggestioni paniche e serene che alludono a una spiritualità pagana e animista; si è indirizzati verso un rapporto profondo e più intimo con lo spazio e con il tempo; invitati a riconciliarci con il presente attraverso una sorta di "premonizione del passato" (non vi sono memorie ma suggestioni emotive) che apre al futuro attraverso la persistenza delle presenze, l'immanenza dello spirito nelle forme materiali.
In questo cinema, gli ambienti sembrano importanti tanto e più delle persone. Rarissimi i primi piani: il film si compone principalmente di campi medi e lunghi, in cui molta attenzione è dedicata appunto allo spazio, ai luoghi, a ciò che essi contengono.
Primitive Project
"Lo zio Boonmee che ricorda le sue vite precedenti" si ispira a un libro del 1982 di Phra Sripariyattiweti, monaco buddista che riferiva i suoi incontri con un uomo il quale asseriva di ricordare le proprie vite precedenti.
Il film fa parte di un progetto multimediale di Weerasethakul, dal titolo "Primitive", assieme a due cortometraggi, un'installazione audiovisiva e ad un volume. Denominatore comune del progetto, il territorio della Thailandia settentrionale, che possiede sue specifiche tradizioni culturali.
Intuiamo (nei rimandi all'esercito; nella battuta sui comunisti uccisi) anche l'importanza dei retroscena politici, che probabilmente sarebbe necessario conoscere per comprendere più a fondo l'opera. Così come sarebbe necessario conoscere riferimenti iconosgrafici thailandesi che non possediamo: pare ad esempio che le scimmie- fantasma dagli occhi rossi appartengano a una specifica tradizione horror locale.
La locandina originale del film è un disegno in bianco e nero in cui ruba la scena uno scimmione, che rimanda alle tante scimmie che appaiono nella pellicola. Questa locandina dice, al contrario di quella che accompagna il film nella sua distribuzione italiana, del gusto giocoso e ironico insito nello stile del regista.
Weerasethakul si rivela anche un divertito anticonformista, nel suo rifiuto radicale dei canoni della narrazione tradizionale: la cosa gli ha procurato – così come tanti entusiasti ammiratori – anche tanti detrattori. Annoiati dal suo ermetismo, costoro sospettano vi sia in questo autore l'autocompiacimento snob di colui che si rivolge apparentemente soltanto a un ristretto pubblico d'essai, principalmente occidentale.
Resti pure il sospetto: tuttavia, a distanza di qualche giorno dalla visione, le immagini del suo film rimangono più che mai vivide, e permane il fascino e la curiosità nei confronti di un regista che sa elaborare forme nuove e inconsuete per alludere, attraverso il cinema, al vasto mistero che ci circonda. Egli ci invita ad uscire dagli spazi familiari del nostro quotidiano, immaginare di penetrare nella giungla. Sta a noi rifiutare l'invito, o correre il rischio di trasformarci in scimmie fantasma.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 26/10/2010 15.08.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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