Voto Visitatori: | 8,02 / 10 (66 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
"Mommy" è il quinto film dell'enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan (autore a tutto tondo, che i film se li scrive e spesso - non in questo caso - li interpreta). "Mommy" - prima opera di Dolan a esser distribuita in Italia - si è aggiudicato il Gran Prix della giuria all'ultimo festival di Cannes, ex aequo con "Adieu au language", l'ultima, sperimentale provocazione (in 3D) di un autore che giovane lo è rimasto dentro: l'ottantaquattrenne Jean Luc Godard. Ma se Godard, che non ha mai smesso di sperimentare, lo fa sorvegliando le sue creazioni con il piglio rigoroso dell'intellettuale, la peculiarità di Dolan sta nel suo irrefrenabile temperamento emotivo. Una foga priva di freni e di pudore, avida di vita. Il cinema di Dolan è al contempo ingenuo e geniale, specialmente nell'uso delle musiche, in un'accondiscendenza alla cultura visiva delle clip video che invece di apparire kitsch risulta squisitamente genuina.
Con "Mommy", Dolan, classe 1989, raccontando del tormentato rapporto con la propria madre Diane da parte di un quindicenne affetto da deficit di attenzione, Steve, è tornato sulla materia del suo primo film - scritto a 16 anni e diretto a 20 - "J'ai tué ma mère" (2009). Fu il suo esordio alla regia, e lì vi recitava anche, nelle vesti del protagonista. Nocciolo del film, scopertamente autobiografico, era il rapporto edipico tra un sedicenne e sua madre. Se nel film d'esordio Dolan decise appunto d'interpretare il ruolo del figlio, adesso opta per un distacco maggiore con il personaggio, lasciato alla straordinaria verve di Antoine Olivier Pilon. Il ruolo della madre, invece, a sottolineare senza remore la linea di continuità fra i due film, è affidato ad Anne Dorval, la medesima attrice che fu la madre in "J'ai tué ma mère".
Si può senz'altro guardare "Mommy" senza conoscere il suo precursore, non si può tuttavia scrivere di "Mommy" senza aver visto "J'ai tué ma mère". Non che si tratti di un remake (se non in una particolare e originale accezione autoriale). Le differenze nella vicenda sono tante, ma nessuna è veramente fondamentale - a parte una. Si tratta di un cambio di prospettiva. In "J'ai tué ma mère" il punto di vista dell'autore coincideva quasi completamente con quello del ragazzo, afflitto da un rapporto di amore-odio verso la genitrice. In "Mommy", il punto di vista è neutro. Dolan è cresciuto, e la sua attenzione per il personaggio della madre è più sfumata, sensibile, profonda.
A sentir lui (leggendo il pressbook), è quasi un atto dovuto, nel senso di ridare alla madre (la propria) il diritto di "vendicarsi" dell'ingiustizia subita con la virtuale uccisione del primo film (uccisione che, presente solo nel titolo, restava virtuale anche nella pellicola). E' il caso di riportare a riguardo le parole del regista: "Se c'è un tema che conosco meglio di qualsiasi altro, che mi ispira incondizionatamente, e che amo sopra a tutti gli altri, è certamente mia madre. E quando dico mia madre, intendo LA madre in senso lato, la figura che rappresenta. E' su di lei che torno sempre. E' lei che voglio vedere vincere la battaglia, è per lei che voglio inventare problemi che lei possa avere il merito di risolvere, è attraverso di lei che mi pongo delle domande. E' lei che voglio abbia ragione quando avevamo torto. Ai tempi di 'J'ai Tué ma mère', sentivo di voler punire mia madre. Da allora sono passati solo cinque anni, e credo che per mezzo di 'Mommy' stia cercando di farla vendicare".
In entrambi i film ricorre il tema odi et amo. In "Mommy", più che nel precursore, questo tema non è semplicemente rispecchiato dai sentimenti del figlio, ma si spande sull'intero rapporto, finendo per caratterizzare anche i sentimenti della madre. E' dunque un rapporto di amore ed odio, quello fra Diane e Steve in "Mommy": un rapporto fatto di slanci estremi, delineato sin da subito come complicità profonda fra i due, che rischia di alienarli al mondo, quasi fossero due freak, entrambi, (anche la madre a modo suo) dei disadattati. Non si sa cosa potrebbe succedere se non intervenisse, quasi provvidenziale a complicare e mitigare il rapporto, la vicina di casa Kyla (interpretata da Suzanne Clément, altra attrice ricorrente nel cinema di Dolan). L'intensità dei sentimenti di Diane, in particolare, è tale da divenir a momenti a lei stessa insopportabile. Ecco che questo rapporto contrastato implica, da parte della madre, l'inevitabilità dell'abbandono. L'abbandono (l'unica ragione per il pretesto fantascientifico-distopico con il quale si apre il film), sotto specie non poi tanto diversa, c'era anche nel film del 2009: la sua inevitabilità è dettata dall'urgenza, fattasi impellente, del bisogno di sottrarsi all'attaccamento esasperato/disperato del figlio, che odia la madre ma non può vivere senza di lei. Il desiderio di distacco è un sentimento speculare, dunque; con tutte le carte in regola per porsi dalle parti del melodramma.
Non possiamo adesso tacer oltre del più rilevante motivo di originalità stilistica di "Mommy": la scelta, spiazzante e coraggiosa, di girare l'intero film in formato 1:1. Il quadrato perfetto. Quello che Dolan dice di considerare il formato ideale per inquadrature di ritratti, uno spazio in cui "nessuna distrazione, nessuna ostentazione è possibile", appare in realtà funzionale a rappresentare, con grande efficacia, la costrizione emotiva con cui i due personaggi convivono. Una costrizione che non discende solo dalle angustie cui reciprocamente si costringono, ma sembra anzitutto una condizione che accomuna madre e figlio nei confronti del resto del mondo. Nel rapporto tra i due sembra regnare una sintonia di fondo, talmente radicata anzi da essere proprio essa fondamentalmente ingestibile, e dunque pronta a comprimerli. Ma Diane e Steve, forse non ne sono consapevoli, sono bigger than (their) life. E il mondo, la società in cui vivono, non fa altro che porre sin dall'inizio ostacoli al loro legame. Ecco allora che anche il formato della pellicola li stringe, li co-stringe, li soffoca.
In due splendidi momenti (senz'altro i più belli e memorabili del film), la costrizione si attenua, e il formato, accompagnato in un caso da un gesto esplicito di Steve, si slarga. Si fa panoramico. La vita appare ampia, in tutto il suo respiro. Finalmente disteso. Nel secondo di questi momenti, è proprio la vita intesa come futuro da vivere, a venire rappresentata in modo ampio e disteso: una vita immaginata colma di gioie e armonia. Non a caso, l'armonia della musica accompagna l'excursus, in uno di quegli splendidi momenti, classici in Dolan, in cui il suo cinema assume i connotati di una clip.
Si tratta in entrambi i casi di illusioni: la realtà torna a farsi sentire, il formato si restringe, l'assenza di respiro torna a stringere il costato come lo sguardo. Ma il miracolo di un film come "Mommy", come di tutto il cinema di Dolan (che in cinque film non ha mai sbagliato un colpo), sta nel suo essere carico di vitalità anche nei momenti più neri, al punto da dare in qualche modo sempre la suggestione che la vita sia comunque vada più forte di ogni sua negazione. Questa sensazione, in "Mommy", la regala soprattutto il finale, dove una ribelle corsa al rallentatore (lo slow-motion è altro espediente ricorrente nello stile di Dolan), prevedibilmente senza esito fortunato, condensa ciononostante in sé un indomito, irrefrenabile e irredento - dunque ottimistico - anelito di vita. Che nulla e nessuno potrà mai costringere entro i ranghi.
Stessa sorte auguriamo con tutto il cuore a Xavier Dolan e al suo cinema. Restare impudicamente sregolato: sempre e comunque, fuori dai ranghi.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 12/12/2014 15.23.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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