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"LE COSE APPARTENGONO A CHI NE HA BISOGNO".
Chiunque provi a rivedere dopo tanti anni un qualsiasi film di Bunuel rischia di ritrovarsi spiazzato: pochi frammenti costituiscono il perno sintetico di un'opera che è - come tutti sanno - assai complessa sia nella simbologia che nel suo imprevedibile intreccio: al di là della forza stilistica del cinema Bunueliano, ciò che prevale è una sorta di ambiguità ideologica e teologica, ambiguità che a ben vedere costituisce una delle fonti essenziali del suo cinema. Come in molti uomini dichiaratamente atei, l'elemento religioso e la dissacrazione volutamente "eretica" (che a dire il vero rappresenta soltanto una personale visione dei temi suddetti), sacro e profano convivono in una sorta di perenne trait d'union, atti a sintetizzare le contraddizioni del bene come del male, e le sue molteplici sfaccettature. Anche il realismo nudo e crudo del regista, fin dai tempi del discusso e magnifico "I figli della violenza" (1950) da una parte sembra prendere le distanze dal neorealismo attraverso metafore surrealiste, dall'altra sembra consacrarsi a una rappresentazione sociale aspra e mai "buonista", quasi più vicina alla sperimentazione sociale di certi cineasti francesi (Bresson) che a quella di De Sica o Rossellini.
"Nazarin", ambientato in un sobborgo di Città del Messico, adattamento di un romanzo scritto da Benito Pérez Galdos nel 1895, narra le vicende di un sacerdote che vive in condizioni di perenne umiltà, convinto di poter condividere soltanto con la propria dimensione spirituale le sofferenze e le privazioni di cui egli stesso è artefice. Egli vive al primo piano di una vecchia locanda, in una dimora dove lascia spesso porte e finestre aperte, continuamente derubato da donne di dubbia moralità, da vicine di casa e per questo in conflitto con le autorità, che tollerano sdegnati il suo comportamento (quando, come spesso accade si trova in difficoltà, chiede l'elemosina, come un qualsiasi barbone di strada). Davanti a una rissa di prostitute degna del melodramma di Bizet ("Carmen") il parroco offre ospitalità e rifugio ad Andala, ferita e ricercata dalla polizia per omicidio, con conseguenze nefaste per il proprio esercizio sacerdotale. La donna gli brucia la casa nel tentativo di mascherare la sua presenza nell'umile dimora prima dell'arrivo della polizia, e il giovane sacerdote decide di trasferirsi nelle campagne dove diventa un'incrocio tra un emulo francescano e una figura Cristologica: ma è soprattutto quando l'Uomo si fa Carne e, smessa la toga, sembra adattarsi alla fatica e alle privazioni dell'umanità terrena, che il protagonista assiste inerme alla difficoltà dei rapporti con la gente: cerca un lavoro "solo per il pane" suscitando la rabbia di chi lo scaccia perchè nessun povero sembra accontentarsi di così poco, tenta invano di alleviare il dolore di una giovane appestata in un villaggio, che in un momento di lucidità reclama il bacio del marito ritrovato e l'allontanamento di quel sconosciuto "uomo di strada". Nel suo lucido vagabondare, Nazarin ritrova Andala e soprattutto Beatriz, la donna che aveva a lungo pianto la separazione dal suo amante, "il Pinto". In questo contesto, il Bene e il Male si equivalgono: anche se le due donne ambiscono a seguìre Nazarin come i discepoli di Cristo, non potrebbero essere più diverse: tanto spirituale e interiore è l'adulazione di Beatriz per il sacerdote, quanto carnale e delirante si direbbe l'interesse di Andala. Davanti a una bambina gravemente malata, Nazarin invoca la pietà di Dio e la piccola guarisce: si direbbe un miracolo, con le donne in preda a convulsioni e delirio pronte a sostenere la presunta Santità dell'uomo, il quale si dimostra indifferente, se non profondamente irritato e offeso ("Non parlatemi più di miracoli"). Dopo tante vicissitudini, Il Pinto raggiunge Beatriz e la sollecita a tornare con lui, ma davanti al rifiuto della donna egli denuncia Nazarin e le "sue" donne, suscitando anche lo scalpore delle autorità e della popolazione.
La realtà di Nazarin non ha bisogno di essere analizzata nel suo evidente lirismo: la povertà, per esempio, è descritta in tutta la sua amorale brutalità, senza mezzi termini nè scorciatoie buoniste: anche nel regime brutale del Presidente Diaz, in cui è ambientato il film, anche davanti a una borghesia capace di tante efferatezze, i poveri non sono soltanto dei reietti sociali, ma anche dei criminali, dei delinquenti, dei biechi furfanti, come dimostrano le diverse sequenze in cui Nazarin si confronta con l'umanità che dice di rispettare e amare. In realtà Nazarin è incapace di offrire amore agli altri essendo incapace di comprendere fino in fondo l'amore delle due donne che diventano sue seguaci e in cuor loro ambiscono a diventarne le amanti: il desiderio erotico, che pregiudica quello che un critico chiamava "demonismo sadomaso" nei suoi riti più estremi viene accantonato dall'uomo fin dalla sequenza in cui, nella casa dove ha ospitato la donna, scaccia con i piedi le scarpe di Andala dal pavimento relegandole più lontano possibile dalla sua vista. Al tempo stesso, è emblematico il confronto di Andala con Beatriz, nel momento in cui la stessa Beatriz appoggia dolcemente il capo nelle spalle del giovane prete, la gelosia di un desiderio carnale (perchè Andala, quasi una versione enfatizzata di Maria Maddalena): è a quel punto che Nazarin, impreparato all'amore delle due donne, sembra più interessato a raccogliere da terra una lumaca, e, trattenendola in mano, osservarne la sua esistenza pigra e tranquilla.
"Nazarin" è ovviamente ricchissimo di citazioni dalla Bibbia e dal Vangelo: l'arresto dello stesso Nazarin, acclamato come Santo, Cristo o (al peggio) semplice Santone travestito da pezzente, è una chiarissima rilettura dell'episodio dell'orto dei Getsemani, e del resto la stessa difesa di Andala pronta a difendere l'uomo dalla violenza dei gendarmi, ricorda un altro celebre episodio dei Vangeli (Pietro in difesa di Gesù).
Non è difficile inserire il film di Bunuel nella lunga lista di film a carattere più o meno teologico/religioso, come per altri versi "Dio ha bisogno degli uomini" di Delannoy, "Il diario di un curato di campagna" di Bresson, "Ordet- la parola" di Dreyer, ma ad un attento esame è un film profondamente nichilista che smonta il processo mistificatorio delle religioni e celebra "l'inutilità del personaggio di Nazarin" ("Lei dalla parte buona, io dalla parte cattiva. Ma nessuno di noi due serve a qualcosa", confessa a Nazarin un detenuto colpevole di omicidio). Ed è proprio muovendosi tra mistificazione, superstizione, pregiudizio e fede, che Bunuel mette a nudo una realtà relativamente incapace di guardarsi intorno, divisa tra chi si affida ai dogmi in una sorta di delirio religioso, alle credenze popolari (la Iettatura, per dirla alla Goethe), e (nel caso di Nazarin) ad un monolitismo spirituale che affida al sacrificio e all'umiltà l'unico arbitrio di un completo o parziale disconoscimento dell'umanità.
Nonostante tutto, il finale, vagamente ottimista, sembra colmare il vuoto del protagonista, richiamandosi, non senza sarcastica ironia, al capitolo biblico della Creazione (l'Ananas come simbolo del peccato originale antitetico e ambivalente alla fatidica mela d'Adamo).
"Nazarin", dunque, diventa un altro tassello determinante del cinema di Bunuel, che come un artista neutrale e profondamente laico non può e non vuole rinnegare le immagini della religione da cui egli stesso invita a separarsi, e in ogni caso sono proprie le suggestioni dello spirito e della fede a rendere creativo lo studio "umano" e filosofico del suo cinema.
Sceneggiato con la collaborazione di Juilio Alejandro, "Nazarin" ha l'aspetto stilistico di un film muto, a cominciare da una fotografia che sembra tardivamente catturare l'espressionismo come forza empatica visiva ma soprattutto psicologica del desiderio e della lussuria: il tutto è filtrato dagli occhi spiritati di Andala, quasi la reincarnazione di Theda Bara, o delle vamp degli anni 10" e 20": una seduzione certamente meno eloquente e più sinistra, quasi vicina al masochismo acuto e intrigante del cinema di Bunuel. L'ambivalenza tra AMORE SPIRITUALE ed AMORE CARNALE, significativamente catturato dagli spasimi e dalle aspettative delle due donne nei riguardi del sacerdote (Beatriz e Andala), viene spesso rimessa in discussione, o tradita a sua volta: il desiderio espresso, ovviamente "carnale" del nano (Jesus Fernandez) per Andala, o le convulsioni di Beatriz davanti alla madre, "colpevole" di aver smascherato i reali sentimenti della donna verso Nazarin Uomo e sacerdote.
Uscito alla fine di un decennio tanto florido quanto discontinuo, "Nazarin" è affine a quel magnifico compendio della gelosia come forma di ossessione (e feticismo) umano che è "El" (1952), e preannuncia già le tematiche affrontate ambivalentemente anche in "Viridiana", "Simon del deserto" e "La via lattea". La notevole interpretazione anche "fisica" di Francisco Rabal, "scalzo come il figlio di Dio", riesce ad evocare un certo sentimento di empatìa nei confronti di un'uomo (un personaggio) che, a differenza di quanto possa sembrare, non sembra sollecitare alcuna identificazione. O forse rischia di identificarsi fin troppo con un'umanità da cui non ama equipararsi.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 02/05/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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