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Il cinema è un'arte nata soprattutto come intrattenimento ed impresa commerciale, e questo dovrebbe essere sempre presente a chi ha intenzione di creare opere filmate originali ed innovative. La natura stessa del cinema obbliga chi vuole essere anticonvenzionale a dosare bene le proprie invenzioni, per non sconvolgere troppo lo spettatore e creare in lui una reazione di rifiuto; soprattutto occorre calcolare bene i rischi a cui si va incontro, senza sbilanciarsi in opere faraoniche o spese eccessive. A nulla vale creare dispendiosi capolavori artistici se poi le sale restano tristemente vuote.
A questo disgraziato destino è andato incontro nel 1967 "Playtime", l'opera che avrebbe dovuto rappresentare il monumento e l'apoteosi della comicità minimalista del francese Jacques Tati e che invece ne ha decretato la sfortunata ed immeritata eclissi.
Fino a quel momento Tati si era rivelato uno dei più originali e divertenti comici del dopoguerra; la sua arte si basava prevalentemente sull'osservazione dei piccoli fatti e degli strani personaggi della vita quotidiana, a cui in genere non facciamo caso.
Frugando quindi fra le pieghe del reale, Tati riusciva a far sorridere delle sue mille stranezze, senza però rinunciare ad evidenziare i tanti condizionamenti sociali che finiscono per limitare la libertà e l'umanità del singolo individuo. Il risultato è ottenuto grazie all'intervento di un personaggio fuori dal comune, un po' disadattato, che con le sue stramberie riesce a fare contrasto con la "normalità" ed a farcela vedere come in controluce, in maniera distaccata. Nel 1949 Tati interpreta un postino ingenuo e bonaccione che ci fa sorridere con le sue piccole avventure paesane in "Giorno di festa", dandoci un quadro ironico e divertito della campagna francese. Poi piano piano nei suoi film entra in scena il benessere e la modernità industriale e il testimone di questa trasformazione epocale diventa "Monsieur Hulot": uno spilungone dinoccolato e taciturno, sempre svagato e fuori luogo, con un particolare talento nel perturbare l'"ordine" apparente, volendo essere semplicemente "servizievole". Eccolo allora a rovinare il tran- tran di alcuni abitudinari villeggianti ne "Le vacanze di Monsieur Hulot" (1953), per poi offrirci una feroce satira della smania del moderno in "Mon Oncle" (1958), probabilmente il film più riuscito di Tati.
Fino ad allora era riuscito a tenere in equilibrio la raffinata e anticonvenzionale forma artistica (assenza di trama, lentezza del ritmo, varietà dei personaggi) con l'esigenza di non annoiare e di non affaticare la mente degli spettatori. Il successo spinge Tati a prendere di petto la questione che più gli stava a cuore: l'omologazione, l'alienazione e la spersonalizzazione brutale prodotta dalla civiltà dei consumi che stava condizionando la vita dei singoli in tutto il mondo già negli anni '60. Per riuscire nel suo intento Tati punta molto sulla scenografia della storia che aveva in mente: voleva un ambiente gigantesco, asettico, estremamente ordinato e geometrico.
Solo qualcosa di esemplare lo avrebbe accontentato e quindi decise addirittura di costruire ex novo una città immaginaria. Sbalordendo mezza Francia fa sorgere alla periferia di Parigi una piccola città ultramoderna, tutta fatta di vetro e acciaio, che venne soprannominata Tativille. Non si trattava di una città di fondali ma di palazzi di solida costruzione, tanto che i costi di realizzazione raggiunsero cifre esorbitanti.
"Playtime" non ha una vera e propria trama: giorno e notte si succedono in maniera a volte arbitraria, i personaggi si muovono e agiscono senza rivelarci il loro scopo né mostrando un senso in quello che fanno. Non esiste un protagonista: la più vile comparsa ha la stessa importanza di Monsieur Hulot stesso, il quale viene quasi clonato in personaggi paralleli che agiscono come lui. L'intento è spostare l'attenzione sull'ambiente e sui meccanismi del suo funzionamento, più che sulle persone che vi agiscono. A tale scopo Tati usa per le riprese sempre un campo lungo o medio, per lo più in panoramica; non esiste una sola inquadratura in primo piano. A complicare le cose, nella scena si svolgono molte azioni in contemporanea; tutto questo a suggerire la frenesia estrema del vivere moderno e allo stesso tempo l'isolamento e il distacco di un individuo dall'altro, nonostante l'affollamento. Anche i suoni giocano un ruolo importante con la confusione della strada, i silenzi irreali delle sale d'attesa o le voci manierate di chi annuncia o reclamizza prodotti. Nonostante il movimento, il ritmo del film è lento, i tempi sono dilatati, proprio per far risaltare la banalità e la noia del mondo moderno.
Il film è strutturato in quadri che si succedono senza legame fra di loro. Si comincia con quello che sembra un ospedale e che invece si rivela un aeroporto (tanto per far notare l'uniformità architettonica dei luoghi moderni). Entra quindi in scena un gruppo di turisti americani in visita a Parigi, i quali finiranno per scoprire che a Parigi ci sono gli stessi edifici e gli stessi oggetti che in America; i monumenti del passato sono ormai diventati dei riflessi nelle vetrate moderne. Il loro tempo di svago (da cui il titolo del film "Playtime") viene speso in foto e in shopping di oggetti strani quanto superflui. Si passa poi a seguire Hulot che deve incontrare un impiegato in un ufficio ultramoderno. Questa è la parte più inquietante e riuscita del film. L'architettura razionalista fatta di fughe prospettiche di vetro e acciaio, le pareti nude, i blocchi geometrici, sembrano qualcosa di surreale che annichilisce e imprigiona le persone. La scena di Hulot che guarda sconcertato dall'alto un salone fatto di tanti box con gente dentro che lavora fa il paio con quella di Chaplin che serpeggia fra gli ingranaggi in "Tempi Moderni", a simboleggiare la nostra schiavitù ai modi di produzione (post)industriali.
La seconda parte del film vede la rivincita degli esseri umani sull'ambiente "ostile". Hulot e i turisti americani si ritrovano all'inaugurazione del ristorante "Royal Garden" (tutti i luoghi hanno nomi in inglese, diventata la lingua della globalizzazione). Qui finalmente si rivede un po' di comicità tradizionale fatta di piccoli incidenti, oggetti che si ribellano e si ritorcono contro chi li usa, personaggi grotteschi e caricaturali, confusione, disorganizzazione con tanto di disastro finale. Tutto ciò a dimostrare che, nonostante tutto, dietro gli oggetti c'è sempre la mano dell'uomo con il suo animo imprevedibile e non omologabile. Anche le scene finali vogliono lasciare un po' di speranza: tutto sommato una rotonda stradale si può trasformare, volendo, anche in una specie di giostra; esistono poi ancora tante persone strane ma cordiali ed umane e soprattutto i bambini con la loro fantasia e voglia di giocare.
Il senso del film risiede nelle implicazioni di ciò che viene mostrato ed è quindi un "piacere" tutto mentale e riflessivo quello che ci dona Tati; qualcosa di troppo pesante per uno spettatore comune. Il fallimento commerciale pesò come un macigno sulle spalle di Tati, che fu costretto ad ipotecare perfino la casa per pagare i debiti.
Nonostante la difficoltà della visione, "Playtime" è quasi un capolavoro per l'estrema cura formale e per la grande efficacia nell'anticipare il processo di globalizzazione che sta uniformando i modi di vivere mondiali. E' anche una messa in guardia a non perdere la proporzione umana dell'ambiente che ci costruiamo intorno, per non restare schiacciati e come imprigionati nell'apparente gabbia dorata dell'abbondanza e dell'efficienza, che poi alla fine si traducono in un vuoto di valori, stress e smarrimento di fronte alla complessità della vita moderna.
"La gente è triste. Nessuno fischietta più per la strada." (Tati)
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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 03/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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