Recensione schramm regia di Jörg Buttgereit Germania 1993
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Recensione schramm (1993)

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locandina del film SCHRAMM

Immagine tratta dal film SCHRAMM

Immagine tratta dal film SCHRAMM

Immagine tratta dal film SCHRAMM

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Immagine tratta dal film SCHRAMM
 

Scarlatti rivoli di sangue attraversano larghe chiazze di vernice bianca.
Un'immagine simbolica, una perfetta metafora di corruzione e di morte. Muore così Lothar Schramm: un uomo solitario, un assassino malato. I giornali titolano: "Morte solitaria dell'Assassino del rossetto".

Lothar Schramm muore come aveva vissuto: da solo.
Questo vuoto esistenziale fa da sfondo agli omicidi che egli compie tra le mura domestiche, nel luogo in cui riecheggiano a gran volume i suoi tormenti. La prima osservazione è scontata e immediata: Schramm è un uomo la cui salute mentale è irrimediabilmente compromessa. Altro non si potrebbe dire di un uomo che, oltre ad uccidere, soffre di orrende allucinazioni e di estreme perversioni sessuali.
E' necessario però fare un passo in più, e comprendere che il suo disturbo ha radici profonde.

"Schramm" è in effetti un lavoro di approfondimento, che scava sotto l'immagine esteriore e superficiale di un killer noto come "l'Assassino del rossetto" per parlare dell'uomo Lothar Schramm. Superando la cronaca giornalistica incentrata sul "cosa ha fatto", il film compie un'analisi umana ed esistenziale del "chi era".
Nel fare questo, Buttgereit racconta una storia che trascende l'ottica del mero spettatore, confondendola col punto di vista proprio del protagonista. Capita così che, alle immagini della realtà narrata, si sovrappongano spesso le immagini prodotte dalle visioni oniriche (se non deliranti) dello stesso Schramm.
La questione della gamba è esemplificativa. In alcune scene Schramm è privo della gamba destra, mentre in altre egli appare perfettamente integro. Come si spiega questo?
La realtà è che Schramm è davvero privo dell'arto. Di questo non v'è dubbio: la dinamica della morte ruota proprio intorno all'accidentale distacco della protesi e alla conseguente caduta dalla scala. Allora come mai, al momento di salirvi, erano ben visibili entrambi i piedi in carne e ossa? Il fatto è che questa menomazione fisica si riflette pesantemente nel suo spirito, e influenza il suo modo di affrontarla. Capitano infatti momenti in cui egli realizza di non avere la gamba, ma non sapendolo accettare vede con terrore solo un moncherino insanguinato. Capitano altri momenti in cui sembra invece prevalere una cieca ostinazione, ed egli vede se stesso perfettamente integro.
Si tratta di una sofferenza atroce per Schramm. Una perdita recente, se si interpretano i vari flashback che mostrano Schramm da giovane correre all'aperto e da adulto partecipare ad una corsa. Attimi narrati tramite immagini leggermente offuscate e rallentate: l'espediente tecnico adottato da Buttgereit per riproporre momenti introspettivi (ricordi, sogni o deliri). Schramm ha un passato da corridore che pesa enormemente sulla sua attuale condizione.
Oppure, idea suggestiva, forse ne aveva solo il sogno?

Al di là dell'handicap fisico, la concausa principale della sua fragilità psichica è senz'altro l'instabilità affettiva. Il vuoto sentimentale della vita di Schramm si riflette nelle sue perversioni erotiche. Le immagini forti e i ricordi spezzati fanno intuire come egli soffra di un'acuta forma di ginefobia, una "patologica avversione e timore delle donne" (come recita testualmente il glossario medico).
Schramm subisce i naturali impulsi sessuali, ma frenato da questa fobia, non arriva mai ad un rapporto sessuale "canonico", lasciando sempre una "distanza di sicurezza" tra sé e la donna reale: pratica autoerotismo su foto di donne, oppure si accoppia con il cadavere di una donna uccisa (almeno per quanto si possa intuire dalla scena in cui, spogliato il corpo, ne divarica le gambe inginocchiandosi). Inoltre, per quanto desideri fortemente Marianne, la prostituta vicina di casa, egli non tenta mai l'approccio diretto: fa sesso con un moncone di bambola gonfiabile mentre origlia i gemiti di lei attraverso la parete; e quando, dopo averla invitata a casa propria, la addormenta con sonniferi, si ferma davanti a lei, "limitandosi" all'onanismo accompagnato dal turpiloquio. E' proprio in questa scena che un indizio consente di azzardare un'ipotesi, non necessariamente veritiera ma almeno plausibile. Si tratta di un ritratto, raffigurante una donna di mezza età, che viene inquadrato nel momento in cui Schramm raggiunge il culmine del piacere. L'intuito suggerisce che si potrebbe trattare della madre. E se la ginefobia dell'uomo si fosse sviluppata attraverso il giovanile rapporto, presumibilmente ossessivo, con la madre?

Come si può vedere, "Schramm" costituisce una lucida ed approfondita analisi delle turbe psichiche del suo protagonista; ma se si limitasse a questo, consisterebbe in una mera analisi criminologica.
Buttgereit non si ferma a questo livello e va oltre: propone l'analisi dell'uomo, più che del criminale. Lothar Schramm viene analizzato a tutto tondo.

Spesso l'uomo condanna un proprio simile con un atteggiamento superficiale, secondo cui si giudica "o bianco, o nero": o si è buoni, integri, puliti, oppure si è cattivi, corrotti, sporchi. Buttgereit capovolge questa sorta di manicheismo morale e nel parlare di Schramm ne fa risultare la fragilità e la sensibilità; in una parola, l'umanità. Anche se certo le sue turbe psichiche ne rendono peculiare il modo di viverle.
Schramm è chiaramente invaghito, se non innamorato, della prostituta Marianne, e vive quest'attrazione con una sorta di integrità: non cerca prestazioni a pagamento, non abusa del suo corpo inerme, non la uccide per potervisi accoppiare. Anzi, la accompagna dai clienti, che lei teme; ci esce a cena insieme; prova una tacita amarezza nel pensare che lei paghi la cena coi soldi guadagnati dal sesso.
I pochi fotogrammi poetici presenti in questa lurida storia sussurrano che anche un uomo così malato ha pensieri sereni e malinconici, quando ricorda momenti di un'infanzia spensierata in mezzo ai prati e quando sogna di danzare stringendo a sé la cara Marianne.

Marianne, la prostituta che vive nell'appartamento a fianco, è l'unica persona che orbita nella vita solitaria di Schramm. Lei è socievole, e lui è gentile (anche perché essenzialmente ne è innamorato), ma non è solo questo ad avvicinarli. C'è una somiglianza esistenziale non indifferente tra i due, che li pone in una sorta di empatia.
Innanzitutto, sono due persone che vivono ai margini della società. Sono le frange estreme di questa che, però, non necessariamente è "sana". Come per essi, anche per la società vale il discorso secondo cui spesso sotto il velo si nasconde una realtà ben diversa da quella osservata. I clienti di Marianne sono signori dall'aria distinta e cordiale, eppure si riveleranno anch'essi dei sadici perversi.
Inoltre, Lothar e Marianne sono due persone sole. Tassista e prostituta, mestieri che portano a numerose relazioni ma tutte superficiali, che si concludono nel momento in cui il cliente richiude il portafoglio. Persone che non conoscono l'amore, ma solo un'immagine contorta, che non trova né compimento né compensazione nella deviata forma di sesso che vivono a loro modo.

Entrambi si ritrovano a vivere una vita sbagliata, che non li porta a provare gioia alcuna, ma da cui non sono capaci di sfuggire. Non per nulla si rifugiano (lui nella memoria, lei nelle parole) in ricordi di una serenità perduta. Seduta sul divano, con aria malinconica, lei esclamerà: "Oh sì, quei giorni felici dell'infanzia...".
E' in questa misera consapevolezza che trova senso la citazione d'apertura di Carl Panzram, violento e perverso criminale d'inizio Novecento: "Oggi sono sporco, ma domani sarò solo sporcizia". Come a dire che allo sporco esistenziale non c'è rimedio, se non la morte dell'indomani.
E dopo la morte? E' la provocatoria riflessione lanciata dalla scena di chiusura, che ha qualcosa di ironico e molto di metaforico: Schramm, al cospetto del Signore, viene da Lui schiaffeggiato. Nessuna redenzione per una vita malata?

In tutto il suo svolgersi, dunque, "Schramm" è una storia intrisa di sofferenza. Lungi dall'avere la pace dei sensi dettata da una completa infermità mentale, Lothar ha una certa coscienza delle azioni che compie. E' solo dalla coscienza, infatti, e dalla consapevolezza, che può derivare il pentimento. Pentimento che egli suggella nell'infliggersi da sé la tremenda punizione di inchiodarsi il pene.
Certo non si tratta di una totale lucidità, visto che quando si tratta di uccidere i due propagandisti religiosi egli ne pianifica l'assassinio: dapprima li ospita gentilmente; poi, consumato l'omicidio, si sofferma ponendo i corpi in posizioni sessuali; infine, per coprire i numerosi schizzi di sangue che macchiano le pareti, si appresta a coprirli con vernice bianca. La stessa vernice di lì a poco si mescolerà al suo sangue, a causa di un banale e sfortunato incidente domestico. Salito su una scala per dipingere il soffitto, perde l'equilibrio per colpa della protesi che sostituisce la gamba persa, e cade rovinosamente al suolo. Gli rimarrà solo il tempo di rievocare alcuni ricordi prima di morire.

I giudizi sulle opere di Jörg Buttgereit, regista tedesco classe 1963, sono controversi. Lo si potrebbe definire un "surrealista dell'orrore", per il suo modo di rappresentare tematiche estremamente tabù senza preoccupazioni estetiche o morali, con uno stile ed una schiettezza che invece urtano proprio la sensibilità estetica e morale dello spettatore. Impatto ancor più violento vista l'epoca: è il 1987 quando esce il suo film più noto ed estremo, "NEKRomantik", che parla di necrofilia con una naturalezza insopportabile, mostrandola non come una perversione, ma come una forma d'amore. E' il senso evidenziato nel ricercato gioco di parole nel titolo, con cui il regista sottolinea la componente "romantik".
Non è un caso se anche "Schramm" richiama "NEKRomantic". Con una trovata autoreferenziale (e un po' auto celebrativa), probabilmente per creare una sorta di nesso tra le due diverse opere, Buttgereit inserisce uno spezzone in cui alla radio viene citato proprio il suo nome accostato al provocatorio titolo del suo film più famoso.

Quando uno spettatore si avvicina a Buttgereit non lo fa mai per caso. Regista assolutamente distante e inadatto al mainstream, per forma e per contenuti, si rivolge ad un pubblico decisamente di nicchia: solo lo spettatore che abbia una sensibilità corazzata e una passione cinematografica a tutto tondo può apprezzarlo o anche solo riuscire a guardare i suoi film.
"Schramm", pellicola del 1993, è uno di questi film, controversi per forma e per contenuti.
Dei "contenuti" s'è già detto molto. Buttgereit, uno dei registi più estremi del cinema, sciorina scene raccapriccianti per raccontare come nessun altro al mondo la fusione di tre componenti: l'ossessione della carne, la perversione sessuale e la concretezza della morte. Temi così opprimenti da generare necessariamente sofferenza.
Anche la "forma" è quella perfettamente riconoscibile nei lavori di Buttgereit: un involucro lurido, che dà l'impressione di sporcare le mani al minimo contatto. La fotografia immortala personaggi squallidi e riprovevoli che si agitano nelle loro misere esistenze come maiali nel fango. Gli ambienti sono per lo più piccoli appartamenti che trasudano povertà o sporcizia, stanze dall'arredamento essenziale o grottesco in cui pare di poter respirare odor di chiuso e di morte. I colori non sono mai eccessivi, ad eccezione del vivace rosso del sangue. Gli attori (convincenti) interpretano persone miserevoli che vanno incontro ad un destino triste e squallido come le loro stesse esistenze. Le musiche sono un sottofondo cupo, un lento mantra di note grevi e graffianti.

Nel gioco delle similitudini, vengono in mente i titoli di tre film in qualche modo riconducibili a "Schramm". Per la struttura, ovvero per come essa parta dalla scena finale del film per poi ricostruire il passato tramite continui flashback, ricorda il capolavoro "Memento" (2000). Per il modo in cui viene raccontata la vita privata di un criminale, viene naturale richiamare l'illustre precedente: "Henry Pioggia di sangue" (1986). Per la pesantezza delle atmosfere rappresentate, infine, la somiglianza maggiore si può trovare nel magistrale "Angst" di Gerald Kargl (1993).

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Recensione a cura di ilSimo81 - aggiornata al 19/04/2012 13.31.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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