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Hervè Joncour (Michael Pitt), figlio del sindaco di Lavilledieu, paesino francese non meglio identificato, si innamora e sposa Hèléne Fouquet (Keira Knightley). Abbandonate le aspirazioni militari (non tanto sue quanto del padre), si improvviserà commerciante di bachi da seta, spinto soprattutto dalle parole e delle idee dello strano Baldabiou (Alfred Molina), proprietario di tutte le filerie del paese.
Quando un'epidemia attaccherà i maggiori allevamenti europei e africani, Joncour sarà costretto a spingersi fin nello sconosciuto Giappone pur di procurarsi bachi da seta sani, ma di contrabbando.
Sarà proprio in Giappone che la vita del giovane Hervè verrà sconvolta perchè sarà lì che conoscerà Hara Key (Kôji Yakusho), signorotto di un villaggio, e la sua conturbante geisha, di cui si invaghirà perdutamente.
Presentato in anteprima alla Festa Internazionale del Cinema di Roma, "Seta" suscitò diverse aspettative, più o meno cospiscue.
Diretto dal semi sconosciuto François Girard ("Il Violino Rosso", "Peter Gabriel. Secret Word Live", "Trentadue Piccoli Film su Glenn Gould") e con quella faccia da "Dawson's Creek" di Michael Pitt ("Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa", "The Dremers", "Last Days") nel ruolo del protagonista, il film si è rivelato un lento e soporiforo prodotto perfettamente confezionato ma che nulla aggiunge (o semmai toglie) al romanzo breve da cui è stato tratto.
Ed è in effetti difficile che un lungometraggio possa rivelarsi bello tanto quanto il romanzo da cui viene ispirato. Se poi quel romanzo è un piccolo capolavoro come "Seta" (edito da Rizzoli, nel 1996) di Alessandro Baricco, allora il confronto è sicuramente impari. Baricco ha un modo di scrivere avvolgente e naturale, ed è in grado di dosare ironia e poesia, amalgamando perfettamente le due cose a quel pizzico di erotismo che non guasta mai. La leggenda vuole che abbia scritto Seta di getto e che, in un secondo momento, abbia tolto le parti in eccesso, smussando il suo lavoro come uno scultore con lo scalpello la sua creatura di marmo.
Il film (prodotto da ben cinque Paesi, tra cui Italia, Francia e Giappone) è narrato in prima persona, e questa è una delle pochissime differenze formali nel passaggio da libro a pellicola. Un'altra differenza consiste in alcuni tagli: il libro non manca, ad un certo punto, di particolari più "spinti", di forte impatto sia dal punto di vista linguistico che discorsivo; nel film questi accenni sessuali sono stati traslati o, in parte, eliminati. Girard ha preferito l'eleganza, la formalità, la poesia. Persino l'ironia di molte scene (e personaggi) viene meno, svilita da colori troppo scuri e da espressività repressa. L'unica cosa che il regista ottiene sono momenti di noia e di pura eleganza formale, che non bastano a reggere le sorti di un film dalla trama scarna e dalle interpretazioni altalentanti, evidentemente confezionato per essere il più vendibile possibile.
Altra differenza è nello spazio maggiore concesso, nel corso della narrazione, ad Helene Joncourdi, interpretata dalla bellissima (e qui anche brava) Keira Knightley ("Love Actually", "Orgoglio e pregiudizio", "Domino"), puntando molto sul melodramma e sulla love story. Devota al marito più di quanto altre mogli riuscirebbero ad essere, è lei l'eroina della storia, a tal punto da diventarne la protagonista morale. Le fa da controaltare Sei Ashina, nel ruolo della platonica (ma non troppo) "amante" giapponese del monoespressivo Michael Pitt.
Due bellezze completamente diverse, una occidentale, l'altra orientale, che si fondono perfettamente al contesto e ai rispettivi ambienti. Sembra quasi che facciano parte della bellissima (ma non sempre) fotografia di Alain Dostie ("Il Confessionale", 1995) ed alle scenografie altrettanto belle di François Séguin ("L'età barbarica", 2007). Ad entrambi il merito di aver reso impeccabilmente la ricostruzione dei luoghi: la Francia e il Giappone di "Seta" colpiscono prepotentemente lo spettatore, lo seducono, veri protagonisti della storia. Quando la cinepresa si sposta poi sulla parte orientale di questo mondo di celluloide, allora si che lo spettatore rimane a bocca a perta e i soldi spesi per il biglietto acquistano un senso, seppure effimero. I costumi di Kazuko Kurosawa e Carlo Poggioli non sono da meno, e Ryuichi Sakamoto fa il resto con la sua musica (altro punto di forza del film), rendendo l'atmosfera, catturando i sensi. Peccato che questo non basti a salvare la pellicola dalla mediocrità, che non riesca a rendere tutte le sensazioni e le tensioni che il soggetto portava con se.
I personaggi di contorno sono quasi tutti privi di fascino, ombre indefinite e vaporose, mentre il protagonista catarticamente ispira alla noia lo spettatore indifeso. Hervè Joncour, uomo pavido, irrisoluto, inconsapevole del mondo e delle meraviglie che lo popolano e chiuso nel proprio mondo interiore (metaforicamente rappresentato dalla casa e dal via via sempre più grande giardino), cresce e cambia man mano che i suoi occhi incontrano paesaggi e persone, massacri e povertà, desiderio e oblio. Pitt invece sembra un bambolotto in balia degli eventi, i suoi occhi e la sua espressività corporea non reggono l'eredità di un personaggio unico che rischia di confondersi e accomunarci alle ombre di cui sopra, e che solo nella commovente scena finale riesce ad emozionare.
Unici a salvarsi, oltre alle già citate Knightley e Ashina, ma per motivi diversi, sono Alfred Molina ("Coffee and Cigarettes", "Dead Man", "I Predatori dell'Arca Perduta") nel ruolo di Baldabiou, che conserva tutta la freschezza del personaggio letterario e dà quel tocco di brio che sembra mancare a tutto il film, e Kôji Yakusho ("Memorie di una Geisha", "Cure", "Babel"), perfetto nel ruolo del nobile signore giapponese, saggio e nobile da una parte, rozzo e sanguinario dall'altra.
Girard affermò di essersi attenuto il più fedelmente possibile alle pagine del romanzo, e che lo stesso Baricco aveva controllato il risultato delle riprese e seguì la lavorazione, dando anche qualche consiglio qua e là. Il risultato è un film sottotono, bello esteticamente ma senza spessore, vuoto: in pratica bello senz'anima. Di certo non rimarrà negli annali del cinema.
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Recensione a cura di Zero00 - aggiornata al 29/05/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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