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Fin dai suoi esordi, Errol Morris si distinse tra i documentaristi per il modo di raccontare storie a partire da semplici interviste a camera fissa: da "Gates of Heaven" del 1978 con le sconcertanti descrizioni dei primi cimiteri per animali, attraverso le incredibili biografie contemporanee del cosiddetto "DR Death", specializzato nella costruzione di macchine di morte per le carceri, e di Robert Mc Namara, cinico stratega della seconda guerra mondiale, tutti diretti a cogliere aspetti poco noti della realtà americana.
"Standard operating procedure" racconta gli orrori del famigerato carcere di Abu Ghraib dal punto di vista dei protagonisti: i militari, uomini e donne, che diventarono famosi per aver immortalato alcuni detenuti iracheni torturati e uccisi, raccontano quei giorni commentando alcune foto scattate sul posto come souvenir e che li avrebbero successivamente fatti condannare al processo che subirono in patria sull'onda dello scandalo che ne seguì.
Lo stile di Morris è serrato ed ipnotico. Con l'ausilio di un sottofondo di musica minimalista che avvolge e appoggia i suoi primi piani con un maestoso crescendo narrativo, riesce far convivere emozioni e ricostruzione storica. La sequenza del riassemblaggio delle migliaia di immagini scattate da tre apparecchi diversi e la ricollocazione temporale a partire da alcuni "nodi" di eventi ritratti contemporaneamente raccontata dal perito del tribunale (ri)conferisce a livello estetico un ruolo primario dell'immagine istantanea; progressivamente deprivata del senso di "verità" la fotografia torna protagonista raccontando fatti, puri, essenziali, insindacabili. E in tal senso completa una ideale trilogia sulla veridicità dell'immagine unitamente a "Redacted" di De Palma, in cui una videocamera svela le atrocità del conflitto, ed a "Nella valle di Elah", in cui un padre ricostruisce la natura bestiale del figlio suicida attraverso i brevi video salvati sul suo telefonino.
Ma è, come prevedibile, con i racconti in prima persona dei torturatori, dei quali si coglie un impressionante vuoto emotivo che supera ogni considerazione morale, che la "camera-bisturi" di Errol Morris lavora con precisione chirurgica. Occhi, gesti, tono monocorde ritraggono gli aguzzini nella loro anima più profonda, uccisa per sempre dalla guerra stessa. Le interpretazioni dei fatti stonano con la prova fotografica fin troppo evidente, e la loro realtà assume i contorni di un grottesco Rashomon.
Le rare intrusioni audio del regista sono riservate alle domande più intime e significative, e l'ausilio di inquadrature distorte e di fantasia (come il cappio utilizzato per Saddam, o una stanza invasa da coriandoli dei documenti distrutti) non fa che accrescere la godibilità della pellicola: il docu-film continua a crescere nelle mani di Morris, e non stupisce che sia stato un precursore del genere come Werner Herzog a credere per primo nelle sue possibilità.
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Recensione a cura di fabrizio dividi - aggiornata al 20/10/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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