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Voto Recensore: | 10,00 / 10 | ||
Dagli angoli casalinghi. Dai bassi, modesti, fissi angoli di casa. Non v'è soggettiva migliore da dove osservare il cinema di Ozu, che non in questo rigore, che non da tale obbedienza, contenente più che una rinuncia e, infine, una grande conquista.
Rinuncia allo spettacolo, rinuncia alla gioia momentanea, rinuncia alla ricchezza, rinuncia al movimento. Conquista, che duri una vita e non oltre la vita, di una verità, e non ricerca della Verità.
Nel primo dopoguerra ("Tarda primavera" è il terzo film di questo periodo) s'avverte una nuova urgenza nell'opera di Ozu: le trame si spogliano ulteriormente, con un pudore che è disarmante. Tutti gli elementi accessori andavano tolti. Era la stessa essenzialità delle inquadrature che lo richiedeva: una schietta nudità, una mesta miseria, si pongono davanti a ogni cosa.
Ciò permette, nel minore ingombro possibile, una maggiore espansione - sì ma di che cosa? - appena di quelle frasi normali, di quelle situazioni comuni, di certe preoccupazioni quotidiane che, viste così, dentro uno schermo, diventano straordinarie. Piccole? No, grandi: dal momento in cui quel "appena" diviene un "molto"; e molto perché è tutto ciò che assomiglia alla vita.
La trama - il vedovo Somiya, padre di Noriko, pensa di far sposare la propria figlia; ma lei non sopporta l'idea di lasciare solo il padre anziano, così per convincerla egli finge un suo nuovo matrimonio con una donna - è tutta qui, e non serve altro.
E pochissimi personaggi intervengono in apporto al duo composto da padre e figlia.
Lo zio che si è risposato, soprattutto, è la proiezione patente del dubbio che tormenta Noriko riguardo al fatto stesso del risposarsi, la polemica che nasce attorno all'avvenimento che coinvolge entrambi, padre e figlia, nelle diverse sfumature, il matrimonio.
Non c'è profondità se non nel presentare, così com'è, una situazione che è già di per sé profonda, che non nel mondarla dai dettagli: tocca a noi, se si è disposti, lo scavo psicologico dei volti. A ciò allora divengono funzionali certi lunghi tempi: a darci tempo, in quei poveri ambienti, e modo di trovare ciò che in superficie è già abissale.
Ed è proprio in virtù di questa volontà - e intanto proposta - di approfondimento, che le storie scelte da Ozu in questi anni sembrano somigliarsi tutte, e che girando attorno ai medesimi argomenti - quali i rapporti famigliari, in particolar modo, o quella solitudine a cui va in contro il genitore, l'anziano, e talvolta gravato dalla vedovanza - sono variazioni del tema, un cercare continuo le parole giuste che sappiano, senza diversioni, esporre una filosofia che è tanto elementare quanto complessa: quella di un'accettazione che, a tratti, prende i toni cupi di una rassegnazione e di un'acquiescenza.
Ovviamente, le vicende tra le mura di casa, sempre intime e personali, sondano una crisi e un disorientamento che è di tutta una società: la disgregazione famigliare equivale a quella di un'intera nazione.
Tuttavia "Tarda primavera" ci appare, almeno in partenza, uno dei film più solari dell'Ozu del dopoguerra, tra i più sereni. Mancano ad esempio, se non appena accennati, quei personaggi spesso intenti a bere, o a giocare, e insomma impegnati a riempire le proprie giornate con azioni prive di un significato. Una passeggiata in bicicletta, immersa in una natura tersa e luminosissima, si frappone tra le consuete e statiche riprese degli interni.
Brevi inquadrature mostrano una natura rigogliosa, ma pur sempre contenuta, pacata. E si ha anche un certo trasalimento frondoso, perfettamente inserito nello stacco che avviene dopo lo spettacolo di danza, nell'apertura di quell'albero che sembra, quasi, il fluttuare di un continente.
Ma è sin da subito avvertibile una sofferta sopportazione e un grande stallo, al di là d'ogni cosa, e un contegno auto-imposto e non scevro di dolore; che è poi già presente in quell'aggettivo crepuscolare "tarda" del titolo, che si accosta alla primavera. Si veda, sempre i personaggi che prendono parola, in una pellicola di Ozu, sono colti di fianco, in una grande compostezza, con il viso voltato verso l'obiettivo, a favore di una inequivocabile chiarezza.
In "Tarda primavera" lo sviluppo drammatico sta tutto nel volto di Noriko (S. Hara) il cui sorriso spande luce sul grigiore, e torme d'ombra là quando s'eclissa: si fa ora preoccupato, ora lieto, ora disperato, si rasserena e s'intristisce ancora: ad esso viene affidata, quale insicurezza, la sola modulazione. Di fronte, il viso stoico e rassicurante del padre non cambia mai di espressione.
Pochi elementi, dicevamo, e rarissimi movimenti di macchina. E meno ne troviamo e più il brano si pone come fondamentale.
Pensiamo alla scena in cui Somiya e Noriko conversano a letto, nel buio che esclude gli altri oggetti della stanza, in una tranquillità senza rumori - cosa udiamo? Nulla di cinematograficamente eccezionale: la ragazza che confessa, con semplicissime parole, al padre il suo ripensamento nei confronti della situazione dello zio e della sua nuova moglie. Ma qui come in ogni altro film di Ozu, che è sempre un susseguirsi di simili dialoghi, una sequenza come questa sa divenire speciale, significativa, anche nell'immobilità del solo vaso vuoto che a fine brano viene inquadrato, e che pare, allora, fiorire dell'ombre fini delle foglie sulla finestra.
Insomma ciò che appare in aggiunta, in Ozu, è sempre valido ad un confronto con il personaggio o la situazione centrale.
C'è ad esempio una scena in cui il possibile futuro sposo di Noriko siede a teatro, in ascolto di un concerto di violino. E' solo poiché la ragazza, ancora riluttante davanti al fatto di prendere marito, aveva rifiutato l'invito.
Tale sequenza è risolta in maniera concisa, con pochissime inquadrature: una prima al volto inespressivo di lui, una seconda al cappello e alla valigetta dell'uomo che occupano il posto vuoto; poi uno stacco, e si vede in strada Noriko allontanarsi, di spalle, due passanti che sembrano quasi seguirla, mentre lei volta l'angolo (si sta recando dal padre), e i due sconosciuti tirano dritto.
Più avanti ritroviamo il teatro, dove stavolta siedono Somiya e Noriko, da una parte, e la presunta nuova moglie di Somiya dall'altra.
Qui la scena decisamente si amplia: assistiamo ad un meraviglioso intreccio di sguardi, di cambi d'espressione, di cenni, e ci viene mostrato uno stralcio della rappresentazione di danza, benché sappiamo che il vero spettacolo si stia consumando in platea.
Capiamo che questa sequenza è fondamentale, e che quella breve, vista in precedenza, diviene utile a darle ulteriore profondità; nella memoria dell'amante lasciato andare, nella seduta vuota accanto a quell'uomo e in quella rispettata vicino al padre, seppure inquieta, ormai non più comoda - e viene a crearsi un certo raffronto tra platea e platea, tra uditorio e uditorio, tra ciò che è e ciò che potrebbe, o sarebbe potuto, essere.
Ma in fondo potremmo anche dire che sia tutto il film a reggersi sopra un immenso confronto.
Avevamo detto di come "Tarda primavera" si tinga spesso di tinte solari, d'un ponderato ottimismo, a cui si aggiunga come la saggezza e la serenità del padre siano sempre intervenuti a risanare quel sorriso della figlia ogni qualvolta esso veniva a mancare.
"Non ci si diventa felici perché ci si sposa", confida egli alla ragazza, "ma nel costruire insieme una nuova vita; e ciò può richiedere anche molto tempo..."
Ma arrivati a questo punto, e informati di questo messaggio, potrà mai un'unica immagine, ultima, oltremodo spoglia ed essenziale, bilanciare da sola - o più ancora prevalere, detenendo un aggravio maggiore - un'ora e mezza e oltre di pellicola che nonostante tutto si mostrava positiva? Potrà essa riversare su tutto il racconto, con la sua brevità, una tale infinita amarezza?
Abbiamo ancora in mente la figura agghindata di Noriko, nel giorno del suo matrimonio, dinnanzi al padre, il suo volto bellissimo contenete adesso tutte le espressività levarsi sorridente al suo cospetto.
Poi parte la sposa, e la figlia.
Il bar dove Somiya confessa allo spettatore la bugia "buona" e il proprio sacrificio, desolato e impassibile, si spegne. Ecco l'uomo di Ozu che beve, che attraversa fumando il vialetto buio verso casa, e che non appena entrato appende con riguardo la sua giacca.
Ed eccoci, infine, introdotti in quella scena scarna, disadorna, dolorosa, estrema: il padre rimasto solo che, seduto sopra un'esile poltrona, e immerso nella dissipazione più completa, può ora liberare tutto quello sconforto che sin d'ora aveva eroicamente trattenuto. Prende una mela - che si fa concreta, quasi materica - e comincia a sbucciarla, a fatica, con un'azione che dovrà rieseguire chissà quante volte, per chissà quanti altri giorni vuoti, sempre più tremando.
Nel gesto che pensoso s'interrompe, assieme alla buccia che penzola e cade, crolla lo stoicismo ai piedi del vecchio sbucciatore, che affranto china il capo, in un momento che va protraendosi oltre la parola fine.
E dunque, come interpretare l'ultima inquadratura sulla spiaggia, col mare che perpetuo trascina la sua solitudine sulla riva?
Oppure quelle sue onde tutte uguali, tutte ripetute, tutte inutili, tutte consunte, tutte che si frangono piano; come riuscire a non piangerle?
"Io devo restarne fuori.
È questa una legge della natura".
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 23/04/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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