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Il wrestling sfugge ad una definizione precisa: dapprima era considerato uno sport a tutti gli effetti, prima che uno scandalo doping colpisse la sua federazione più rappresentativa, la WWF (World Wrestling Federation), costringendolo ad una rapida quanto opportuna "degradazione" a puro intrattenimento, ridenominandola WWE (World Wrestling Entertainement). Il motivo era molto semplice: il possesso e lo spaccio di sostanze dopanti in ambito sportivo ha come conseguenza delle condanne penali molto pesanti, quindi in sede processuale fu ammesso che gli incontri erano predeterminati nel loro risultato finale e che le contese sul ring erano spettacoli coreografati.
Implicitamente si trattava di un fatto risaputo, ma mai era stato ammesso ufficialmente, perdipiù in un aula di tribunale; negando quindi lo status sportivo al wrestling venivano a mancare, almeno con effetti attenuati, tutte le conseguenze penali a cui i proprietari potevano incorrere.
Allo stato attuale il wrestling può essere considerato come una variante moderna del circo, con i suoi spettacoli itineranti non solo negli Stati Uniti ma anche in varie parti del mondo. La sostanza dei match comunque non è cambiata; tutto è costruito nei minimi particolari ed i risultati, come già detto, sono predeterminati, ma attenzione a considerare il tutto una pagliacciata inoffensiva. Pur essendo una mistificazione della lotta, i combattimenti comportano dei rischi fisici per gli atleti non indifferenti: parliamo di persone che sanno prendere e ricevere colpi, sanno cadere a terra senza apparenti conseguenze come i più consumati stunt-man professionisti del cinema, a cui non hanno nulla da invidiare da molti punti di vista.
A grandi linee, è questo il background di appartenenza di Randy "The Ram" Robinson, lottatore di wrestling dal passato leggendario durante gli anni '80, ma dal presente caratterizzato dalla precarietà e dall'inesorabile declino.
Aranofsky è un regista senza dubbio attratto dalle parabole discendenti dell'individuo ("Requiem for a dream", "Pi greco"), ancor più quando il declino è determinato da una forma di "dipendenza", fisica o mentale, che ne accellera il processo, rendendo vano qualsiasi tentativo di riscatto o redenzione.
Da questo punto di vista "The Wrestler" non fa eccezione alle due pellicole sopracitate, e dopo due anni dal troppo misticheggiante "The Fountain", Aranofsky torna dietro la macchina da presa con una storia più vicina alle prime due pellicole, ma dalla cifra stilistica molto diversa. Il regista si spoglia di molti orpelli visivi e sonori usati in precedenza per uno stile più scarno ed asciutto sottraendo tutta la patina televisiva dei grandi palcoscenici del wrestling televisivo, rendendolo più conforme all'attuale momento di The Ram, una realtà fatta di incontri nelle piccole federazioni locali (le cosidette "indies").
Non si è mai notata in Aranofsky una propensione alla citazione cinefila, ma questo contesto fatto di piccole palestre di periferia, aule scolastiche adattate a spogliatoi, magri compensi in denaro sufficienti solo per tirare avanti ricordano molto da vicino gli ambienti ed i personaggi di "Fat City" di John Huston, ritratto molto amaro di un'umanità destinata ad essere per sempre perdente e preclusa sin dall'inizio ad assaporare "il sogno". The Ram, al contrario dei personaggi di quel film, il sogno lo ha assaporato in pieno, ma dopo vent'anni è rimasto solo l'eco delle sue gesta e pochi ritagli di giornale.
"6 aprile 1989, questa serata entra nella storia del wrestling professionistico".
La data che segna l'apice della vita sportiva di Randy The Ram Robinson quando diventa campione dopo un incontro leggendario contro la sua nemesi sul ring, The Ayatollah (nome mutuato certamente da uno dei più grandi lottatori degli anni '80: The Iron Sheik). L'orologio del tempo per Randy si ferma proprio qui: un brusco avanzamento di vent'anni ed il sogno è finito, l'eroe di un tempo infoltisce le schiere dei perdenti.
Randy cerca di rimanere aggrappato a quell'illusione fittizia a cui ha sacrificato tutto: dalle proprie responsabilità familiari alla sua stessa salute, preferendo i confronti sul ring piuttosto ai confronti della vita reale di tutti i giorni. Questo è l'unico modo per rivivere quel barlume di gloria passata senza fare i conti con il presente.
Un'eterna illusione in cui il sogno è diventato ossessione, alimentata dalla dipendenza verso un mondo, quello del wrestling, che in realtà lo ha ormai emarginato dal grande giro e ridotto a simulacro triste, in mezzo ad altri grandi lottatori vecchi e stanchi che rimpinguano i loro magri guadagni tramite sessioni di autografi dall'atmosfera spettrale.
La storia non presenta particolari spunti di originalità; la figura del perdente che tenta di riemergere dall'anonimato è stato trattato in numerose altre pellicole, ma il tutto è rappresentato con estrema sincerità senza concessioni a facili sentimentalismi nel descrivere queste esistenze alle prese con le proprie cicatrici personali ed evidenziando il parallelismo, per contrasto, tra il Randy sul ring ed il Randy nella vita di tutti i giorni, con uno stile molto realistico, quasi da documentario. Inoltre bisogna sottolineare la buona accuratezza del regista nella descrizione e nello svelare il mondo del wrestling non tanto per quello che accade sul ring, peraltro ben rappresentato, ma per ciò che succede fuori dal ring, il dietro le quinte, dove appare evidente tutta la finzione dei combattimenti unita ad un forte cameratismo fra i lottatori che giustifica la naturale avversione di Randy ad abbandonare questo mondo, unico luogo dove riesce ad essere un uomo rispettato contrariamente al pesce fuori dall'acqua nella vita quotidiana.
Indovinata e non certo casuale la scelta di ambientare nel mondo del wrestling questo tipo di storia. Rispetto alla boxe, sport molto sfruttato cinematograficamente, il wrestling non è mai stato fonte di grande attrattiva per il cinema. Tuttavia, proprio per le sue peculiarità, permette ad Aranofsky di accentuare in maniera credibile ciò che vive il protagonista in prima persona: due realtà parallele molto vicine come spazio fisico ma, con gli occhi di Randy, distanti sul piano temporale proprio per la sua costante ricerca di ricreare, seppure in maniera virtuale, i fasti di vent'anni prima (i diversi piani di realtà in "The Fountain"?) resa evidente quando, con sottofondo di folla urlante, non entra in scena per un combattimento con un avversario, bensì al bancone del supermercato dove lavora. Si diverte a fare l'istrione con la clientela come una superstar del ring, ma i risultati all'apparenza divertenti, sono grotteschi nella sua tragicità. È un personaggio completamente fuori contesto che vive ancora negli anni 80 con le sue memorabilie, la musica di quel periodo e la vecchia piattaforma Nintendo usata per giocare a wrestling con un ragazzino che è attratto dal Call of Duty 4 invece dei vecchi giochi ormai noiosi.
"I quit"
L'infarto che lo coglie dopo un violentissimo combattimento per la CZW (federazione di wrestling realmente esistente nota per i suoi combattimenti molto cruenti) tra filo spinato, vetri rotti e pistole pinzatrici, offre l'occasione a Randy di riannodare i fili con una realtà ormai messa da parte da troppo tempo e l'opportunità di crearsi un futuro fuori dal ring attraverso l'interazione con i due personaggi potenzialmente capaci di sradicarlo dalla realtà fittizia in cui si è rifugiato.
Uno è Cassidy, una spogliarellista quarantenne ben interpretata da Marisa Tomei, di cui Randy è innamorato. Il suo personaggio ha molto in comune con Randy, non solo dal punto di vista anagrafico: nel suo ambiente lavorativo è sul viale del tramonto, non avendo più l'ascendente e la bellezza folgorante di una ventenne, ma riesce a tenere i piedi per terra in quanto single con un figlio piccolo da mantenere. Nonostante ciò il rapporto con il protagonista è contrastato, anch'essa vittima di convenzioni che le impediscono di oltrepassare la soglia con un "cliente", sia pure sinceramente innamorato. Quando troverà finalmente il coraggio di superare questo confine fittizio, sarà troppo tardi perchè The Ram avrà fatto la sua scelta. Un rapporto quindi di completa asincronia nel manifestare i propri sentimenti reciproci.
L'altro personaggio è Stephanie, la figlia di Randy. Una figlia dimenticata con cui tenta di costruire un rapporto in realtà mai esistito dove la figura del wrestler annullava totalmente quella di padre. Stephanie non ha mai conosciuto veramente suo padre tranne in rarissimi momenti che si perdono nell'infanzia e inizialmente è molto dura nei suoi confronti, ma concede comunque un'ultima possibilità di riscatto che Randy getta al vento banalmente. Questo intermezzo fra padre e figlia mostra un approccio leggermente forzato ed è una delle poche debolezze dell'intero film, ma mostra uno sviluppo molto incisivo nell'interagire dei due personaggi, grazie anche alla bravura di Rourke e di Evan Rachel Wood, che riescono a raggiungere vette emozionali di notevole fattura.
Il fallimento con le due donne, uniche ancore di salvezza per Randy, provocherà la sua reazione rabbiosa al supermaket, dove, dopo essersi ferito volontariamente ad una mano con l'affettatrice, se ne va fracassando tutto ciò che incontra fra mille improperi e pronunciando "I quit".
Non è un'affermazione casuale perchè possiede un significato preciso nel mondo del wrestling e per spiegarlo occorre una piccola digressione.
L'"I quit match" è un incontro a stipulazione speciale del wrestling: la vittoria sull'avversario non avviene comunemente per schienamento di tre secondi o per squalifica dell'avversario, ma inducendo il contendente a pronunciare la frase "I quit" (in italiano "Io cedo") al microfono che l'arbitro tiene sempre a portata di mano.
Questo tipo di incontro viene utilizzato soprattutto per risolvere in maniera definitiva accese rivalità tra due wrestler. Non essendo previsto schienamento o squalifica, ognuno dei contendenti può utilizzare qualsiasi mezzo lecito o meno per far dire all'avversario la fatidica frase. Sono match generalmente molto lunghi, violenti e sfiancanti per i wrestler, al termine del quale sono pressochè sfiniti. Dicendo "I quit" il perdente determina la sua resa totale e incondizionata al suo avversario sancendone una vittoria chiara e definitiva.
Per Randy quindi significa la sua sconfitta personale nei confronti della vita reale alla quale chiuderà per sempre le porte e rifugiandosi definitivamente nel mondo in cui, pur nella sua finzione, offre ancora la possibilità di essere un vincitore.
Il finale di "The Wrestler" in cui Randy The Ram Robinson combatte la rivincita del match vinto vent'anni prima con The Ayatollah è toccante in questo suo elogio alla sconfitta. Non interessa sapere se il suo cuore reggerà o meno al match, ma abbiamo la piena consapevolezza della morte spirituale di un uomo.
La canzone di Bruce Springsteen sui titoli di coda, una ballata malinconica molto toccante che difficilmente farà alzare in anticipo gli spettatori dalle sedie, è un'altra chicca di una pellicola eccellente.
"Mickey The Ram"
Mickey Rourke è la colonna portante del film di Aranofsky. Lo stesso regista ha dichiarato di aver lasciato massima libertà all'attore per costruire al meglio il suo personaggio senza obbligarlo a inquadrature precostituite e basando molto sull'intuizione e l'improvvisazione del momento.
La scelta si è rivelata indovinata: Mickey Rourke offre una un'interpretazione straordinaria per spessore ed intensità emotiva, una delle migliori degli ultimi anni, restituendo al cinema un attore che fino a pochi anni fa sembrava definitivamente perduto e sottolineata ufficialmente all'ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia attraverso la frustrazione resa manifesta in maniera palese durante la cerimonia di premiazione da un Wim Wenders, e con lui tutta la giuria del concorso ufficiale, impossibilitato a dare un riconoscimento individuale alla performance di Rourke visto che il regolamento impediva di assegnare la Coppa Volpi ad un film che avesse già vinto il Leone d'oro (il riconoscimento è stato poi vinto da Silvio Orlando). Il Leone d'oro come miglior film va letto quindi anche come premio implicito a Rourke.
Mickey Rourke era l'interprete ideale per questo personaggio: ha un vissuto comune con Randy Robinson che permette all'attore di mettere molto di se stesso, la sua vita con le sue ferite sul corpo e sul volto devastato dai pugni e dalle plastiche facciali. Due vite che scorrono in parallelo dai fasti degli anni 80 fino ad un presente più sofferto. Ma se The Ram viene sconfitto dal presente, per Mickey Rourke "The Wrestler" può rappresentare una vera e propria rinascita professionale e un ritorno dall'oblio in cui era rimasto prigioniero anche per scelte personali. Sicuramente il film è la prova maiuscola di un talento cristallino che ha avuto la forza ed il coraggio di mettere a nudo se stesso e condividere con lo spettatore un dolore sincero.
Non è stato tuttavia sufficiente per vincere la statuetta come migliore attore protagonista all'ultima consegna degli Oscar, premio andato al pur meritevole Penn che nel suo discorso di accettazione ha reso un sentito omaggio al collega ("Mickey Rourke rises again and is my brother"). Il premio a Rourke sarebbe stata una scelta troppo coraggiosa per un'istituzione, l'Academy, che rare volte ha mostrato coraggio e questa, purtroppo, non era una di quelle volte.
"The world don't give a shit about me".
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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 06/03/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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