Recensione vita di o-haru, donna galante regia di Kenji Mizoguchi Giappone 1952
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Recensione vita di o-haru, donna galante (1952)

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locandina del film VITA DI O-HARU, DONNA GALANTE

Immagine tratta dal film VITA DI O-HARU, DONNA GALANTE

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Tratta dal romanzo "La vita di una mondana" (1686) di Ihara Saikaku, sceneggiata da Yoshikata Yoda, questa toccante e triste pellicola è uno sguardo senza misericordia alla dura e cruda realtà del rigido mondo feudale giapponese del 17mo secolo, una veemente denuncia della condizione femminile nella società patriarcale, una commossa apologia dell'animo femminile. Mizoguchi, solito alla compassione, questa volta non si tira indietro nel ritrarre l'ineluttabile decadenza e la totale disperazione di una donna, vittima delle norme sociali, della gelosia, della sfortuna e degli eventi ostili. Definire il film come una tragedia sarebbe errato. E' molto più deprimente di una tragedia: non c'è eroismo, non c'è ottimismo, non c'è redenzione.
Comprensivi ritratti di donne in una società dominata da uomini sono uno dei temi ricorrenti nel cinema del regista giapponese, ma "Vita di Oharu" non si limita ad una semplice critica al genere maschile, che rende la protagonista un giocattolo nelle loro mani, poiché a causare il suo più profondo dolore sono l'astio e lo scherno delle donne.

Il film si apre con una scena al di fuori del tempo, un'attempata prostituta cammina lentamente lungo una strada povera, incapace di attirare un cliente e insicura di ciò che vuole. Quando una delle statue in un tempio le ricorda il suo amore perduto, la sua immagine innesca il turbinio dei ricordi. Nel finale il film riprende la stessa scena della camminata prima di giungere ad una conclusione decisamente sconfortante, senza speranza e senza alcuna possibilità di salvezza.

Oharu (Kinuyo Tanaka) è una giovane e bella dama di corte nel palazzo imperiale di Kyoto. Si innamora di Katsunosuke (Toshiro Mifune), un giovane servitore. Questo amore però non può essere conforme alle rigide regole della stratificazione sociale, che proibisce, pena la morte, relazioni tra persone di ceto differente. Essendo un servitore, Katsunosuke è lontano anni luce da Oharu, ma la sua passione non conosce barriere e lei non può che soccomberle. Durante un'ispezione in una pensione, il loro rapporto illecito vieno scoperto; Oharu e la sua famiglia vengono esiliate dalla città e Katsunosuke decapitato.
Nessuno è interessato alla sua storia d'amore: i genitori sono nella miseria per colpa sua. La madre di Oharu evita che la figlia si suicidi e quando un messaggero di Lord Matsudaira arriva da Edo per scegliere una concubina che dovrà partorire il futuro erede, sembra che finalmente la fortuna stia tornando per Oharu.

Esplicativa e cinica la scena del messaggero che guarda una frotta di belle donne come se fossero dei cavalli che sta comprando (cosa che in realtà sta facendo). "Questa ha un neo, quest'altra ha i piedi troppo grandi, la faccia di questa qui è troppo lunga....". Infine, comunque, Oharu viene prescelta e, contro la sua volontà ma con il consenso della famiglia, viene inviata al feudo di Lord Matsudaira come sua nuova concubina.
Come prevedibile, Lady Matsudaira si risente della nuova venuta, ma sopprime i suoi sentimenti per il bene collettivo. Quando Oharu "è indotta a partorire un maschio" (usando una significativa espressione dal film), i servitori complottano contro di lei e la Signora adotta il bambino, mentre Oharu, oramai inutile al clan, è rispedita ai suoi genitori. L'odissea di Oharu è solo all'inizio, discenderà poco alla volta i gradini della società, uno sprofondare lento ed inesorabile...

Come contrappeso ad ardite dichiarazioni di onore, lealtà e autosacrificio, il film di Mizoguchi è senza eguali. Rivela il lato oscuro di queste tanto acclamate virtù tradizionali e l'impietosa sottomissione delle donne che esse implicano. A differenza della vociferante controparte occidentale, Oharu è quasi sempre silenziosa, dal principio fino al triste epilogo del suo calvario, completamente rassegnata al suo fato, totalmente incapace di opporre la benché minima resistenza al destino funesto che l'avvolge. Cosa bisogna aspettarsi da una donna "virtuosa"?
Non c'è alcuna risposta a questa domanda. Ma la cosa più sconfortante di tutte è che qualcuno potrebbe trovare questo spirito di sopportazione lodevole, invece non è nient'altro che disperata rassegnazione visto che ogni spiraglio di speranza è rapidamente soffocato dalla successiva avversità. Il Male in Mizoguchi non è individuale ma è generalizzato, tutti sono il male, risultato della crudeltà del mondo, e la tradizione è in larga parte brutalità istituzionalizzata. Ogni rapporto interpersonale passa attraverso un'opprimente struttura gerarchica. Ogni personaggio non è altro che un meccanismo di un ingranaggio, che si muove inconsapevolmente, cercando di assumere un'identità a lui negata.
Un senso di asfissia pervade tutto il film e ogni cosa è funzionale a creare questa atmosfera, donne impacchettate in kimono che ne limitano i movimenti, capelli racchiusi in acconciature stringenti, le continue riverenze ed inchini, l'eleganza delle costruzioni, le linee precise degli edifici, la sensazione rassicurante che proviene dalle strutture, scenografie costituite da rettangoli, cubi, linee e volumi e la colonna sonora spesso percussiva che fa da eco alla geometria del set. Scenografia, musica, dialoghi, montaggio non fanno che acuire il senso di oppressione e reclusione della tradizione Giapponese.

Oharu viene sublimata e quasi idealizzata attraverso una regia pittorica e iconografica e una recitazione stilizzata, che creano un'atmosfera irreale, come se l'azione non avvenisse in un tempo e un luogo ben definito, ma in un "sempre" che si trova "ovunque". Un senso di vuoto avvolge tutto il film, ognuno rappresenta un ruolo e da ciò scaturisce il suo comportamento, tutto il resto (le personalità, i nomi, gli abiti e le posizioni sociali) non sono altro che apparenze fittizie, atte a nascondere il nulla che c'è dietro, è questa la critica assoluta alla società giapponese. Una società in cui ogni cosa è posticcia, in cui la forma conta più della sostanza, in cui in un labirinto di regole e gerarchie non c'è spazio per una propria identità. Tutto è artificiale. Non si può provare alcun coinvolgimento emotivo per Oharu e gli altri personaggi, perché loro stessi non sono presenti "lì" sullo schermo, ognuno alla continua ricerca di loro stessi. La recitazione non fa altro che assecondare tutto ciò, una recitazione stereotipata e in cui gli attori sono consapevoli di stare ad interpretare un personaggio.

Solo un grandissimo come Mizoguchi ha potuto fare un film tanto elegante, senza false retoriche, senza alcuna caduta di stile. Non c'è nessun messaggio manifesto che facilmente potrebbe fuoriuscire come uno slogan lusinghiero e irritante. La storia è raccontata il modo lineare e senza pretese. Lo spettatore sprofonda assieme ad Oharu, nonostante la nostra mentalità occidentale tenti di ribellarsi alla sua soggezione. La vita di Oharu è una vita crudele malgrado tutta la sua eleganza e squisita bellezza.

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Recensione a cura di bungle77 - aggiornata al 20/02/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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