Un giurato in un processo per omicidio si rende conto che potrebbe aver causato la morte della vittima e deve lottare con il dilemma se manipolare la giuria per salvare se stesso o rivelare la verità e consegnarsi.
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JUROR #2 è una rarità. Non solo perché un film che parla di istituzioni e di moralità in maniera para-realistica, oggi, rappresenta un progetto che quasi tutti i cineasti troverebbero poco stimolante e che grossa parte del pubblico troverebbe troppo pesante, ma anche perché i registi in grado di trarne un film avvincente ed emozionante sono mosche bianche e probabilmente solo gli autori di vecchia generazione possono ancora padroneggiare questo genere. Questo film è quindi importante perché rappresenta una sceneggiatura ben scritta che entra in connessione con uno degli ultimi veri autori americani, che negli ultimi dieci anni ha diretto film (Sully e Richard Jewell soprattutto) simili tra loro, oltre che cinematograficamente bellissimi, perché ha qualcosa di molto importante da dire. Ed è un film statuario perché sembra non avere età e sembra esserci sempre stato, per i suoi temi e la sua forma che richiamano i grandi apparati sociali e i grandi dogmi umani quali giustizia e legalità. Ed è stata così tutta la carriera di Clint Eastwood, nato cinematograficamente, da attore, come giustiziere senza legge sessant'anni fa, e poi maturato come regista di film che riflettevano sulla giustizia privata, sullo stato di diritto, sulla necessità di una legge versatile e sull'importanza di eroi che arrivino dove le istituzioni non possono. Quest'ultima fatica rappresenta l'ennesimo suo testa coda riflessivo, l'ennesima occasione di mettere in crisi la sua stessa idea, di origine politica repubblicana ma che alla fine dei conti rappresenta un cinema di filosofia morale. Il tutto fatto in maniera estremamente coinvolgente.