hereafter regia di Clint Eastwood USA 2010
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hereafter (2010)

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locandina del film HEREAFTER

Titolo Originale: HEREAFTER

RegiaClint Eastwood

InterpretiMatt Damon, Cécile De France, Joy Mohr, Bryce Dallas Howard, George McLaren, Thierry Neuvic

Durata: h 2.09
NazionalitàUSA 2010
Generethriller
Al cinema nel Gennaio 2011

•  Altri film di Clint Eastwood

Trama del film Hereafter

Il film racconta le storie parallele di tre persone, che in modi differenti hanno avuto a che fare con la morte. George Lonegan (Matt Damon) è un operaio ha una connessione speciale con la vita ultraterrena. Dall'altra parte del mondo, Marie (Cecile de France) è una giornalista francese sopravvissuta ad un'esperienza di vita e morte che ha sconvolto la sua realtà. Quando Marcus (Frankie/George McLaren),uno scolaro di Londra, perde la persona più vicina a lui, ha il disperato bisogno di risposte. Ognuno attraversa una strada per scoprire la verità, le loro vite si intrecceranno, e cambierà per sempre quello che pensano che esista – o deve esistere- nell'aldilà.

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Voto Visitatori:   6,74 / 10 (244 voti)6,74Grafico
Voto Recensore:   8,50 / 10  8,50
Miglior film straniero
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
Miglior film straniero
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Voti e commenti su Hereafter, 244 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI SENIOR jack_torrence  @  12/01/2011 15:53:38
   8 / 10
"Hereafter" è un film magnifico.
Non parla davvero della morte e dell' "aldilà": parla piuttosto delle perdite e delle "cose rimaste in sospeso". Ma anche questi, in realtà, sono poco più che spunti narrativi per parlare delle solitudini dell' "aldiqua" - e del bisogno di amore.

Le vicende dei personaggi possono sembrare esili? poco interessanti? Ma sono molto più interessanti, invece, di quanto lo sarebbero intrecci "forti" o "originali" in superficie: tanto più belle e più vere mi appaiono le sfumature interiori dei personaggi, ciò che di essi ci viene svelato da momenti riusciti e intensi per scrittura, interpretazione e direzione degli attori veramente notevole. "Hereafter" è un film intimista.
(Ho apprezzato tanto più il tono "minore" e "minimale" di questo film, quanto più sono abitualmente scettico verso il massimalismo non troppo privo di retorica - secondo me, anche se di una retorica "asciutta" - dei film sin troppo osannati di Eastwood. Non sbagliava per nulla, qualche giorno fa, Lietta Tornabuoni - scomparsa l'altroieri - a menzionare Carver, in merito a questo film).

Tutti i personaggi, prima di perdite luttuose (che non tutti hanno), vivono una condizione di SOLITUDINE INTERIORE. Questo, su cui si concentra la splendida sceneggiatura di Peter Morgan, è un soggetto centralissimo dei nostri tempi. Forse, è - o dovrebbe essere - "IL" soggetto più importante, dei nostri tempi.
Sotto la superficie delle nostre relazioni affettive e delle nostre frenetiche attività quotidiane, professionali e personali, si spalancano vuoti in cui i nostri bisogni affettivi, di condivisione di noi stessi e delle nostre esistenze, non trovano interlocutori, o, peggio, scoprono nelle persone cui facevamo affidamento un'assenza di condivisione, una carenza di disponibilità a comprenderci e seguirci nella nostra più profonda intimità.
E' ciò rappresenta, al suo cuore, la vicenda della francese Marie.
Analoga l'esperienza di George, splendido personaggio tratteggiato con delicatezza da Matt Damon: cuore solitario, e con un fratello che rappresenta la punta di iceberg di un mondo che vede la sua "dote" come una possibile (ma illusoria) via per sedare il senso di solitudine e i rimorsi che circondano le perdite e i lutti. E lui frustrato dall'essere strumento, mero "ponte".
Il personaggio più bello è forse quello di Melanie, una Bryce Dallas Howard quasi struggente. Tale è l'intensità con cui trasmette il bisogno di superare la sua solitudine sentimentale, che tanto più fa male poi fare i conti con il suo dolore e la sua ferita nascosta, che si oppongono come un muro sulla strada della sua serenità.
La vicenda di Marcus, in cui echeggiano lontane reminescenze KenLoachiane, scaturisce da una condizione di disagio sociale ed esistenziale (vedere alle prese con essa, "dickensianamente", un ragazzino, non può non toccare emotivamente). Marcus è un ragazzino precocemente solo, privato dalla vita prima del padre, poi di un fratello gemello, e poi pure della madre che le viene sottratta da quei tremendi servizi sociali britannici che Loach ci ha insegnato a temere con tremore. (A lui Eastwood concede qualche tocco di precoce maturità morale che rimanda ad alcuni personaggi adulti positivi di altri suoi film).

Queste vicende lontane e irrelate, vengono rapidamente strette tra loro in un finale cui alcuni rimproverano dei difetti: una improbabilità casistica che ne farebbe un esempio di film costruito a tavolino, lontano dalla realtà, e pure anche un tono eccessivamente consolatorio che la butta in salsa melensa, vicina a un "La vita è meravigliosa" di Capra.
Ebbene, per me il finale non depotenzia affatto il film.
Il caso, dicevo; la "casistica".
Intanto, la connessione conclusiva delle tre storie è improbabile soltanto nell'ottica di chi considera l'improvvisa connessione drammaturgica di tre storie sommamente semplificativa, finalizzata solo a chiudere un film e una tesi.
Non la vedo così. Si dovrebbe ragionare "a converso": partire dalla fine, dove le 3 vicende si sono incrociate, e considerare poi che di esse si è voluto seguire linearmente lo sviluppo "ex ante". Niente allora di più normale.
Storie affini si incrociano - o, più spesso, si possono incrociare (ma non lo fanno, sfiorandosi solamente e mancando l'incontro) - sotto i nostri occhi, quotidianamente.
Le nostre solitudini hanno una matrice comune, e siamo assai prossimi, gli uni agli altri, più di quanto le nostre sofferenze (che ci dividono) ci portano a credere.
Ma per accorgersi di questa prossimità, occorre effettuare scelte: fermarsi a cogliere opportunità. E poi lavorarci sopra. E, se si tratta di incontri, occorre che la disponibilità sia di entrambi. Più comune lasciarsi sfuggire le opportunità, più comune avere paura o scarsa disponibilità.
Probabile che la disponibilità invece ci sia, e sia reciproca, quando a incontrarsi sono due come George e Marie, accomunati da esperienze analoghe (non le esperienze "paranormali": ma le esperienze di solitudine in cui si sono - a causa di quelle - ritrovati). E si badi che il loro è un finale aperto, in cui è lasciato allo spettatore immaginare un determinato "esito felice" - che in realtà sarebbe solo un illusorio inizio - e che vediamo soltanto nell'immaginazione di George.

Il finale di questo film ci vuol dire dell'importanza di ciò che quotidianamente trascuriamo.
Quello che consideriamo "caso" e che nasconde potenzialità immense. Nel film stesso, il rifiuto di queste potenzialità ci è stato mostrato esplicitamente dal personaggio di Melanie.
Molte scelte non le compiamo, molti incroci restano irrisolti, perché trascorriamo attraverso le nostre esistenze A OCCHI CHIUSI, senza essere esercitati a riconoscere i sapori... (Ecco che scopro il senso di una sequenza che diventa di colpo significativa, quella in cui occorre riconoscere i sapori a occhi chiusi alla scuola di cucina! non può essere un caso, è in affinità con le suggestioni più forti che comunica il film).
Molti più "casi" sapremmo riconoscere, insomma, e destini simili ai nostri incrociare, se riuscissimo a essere meno racchiusi in noi stessi, e scettici verso le opportunità che appunto il "caso" ci può offrire.
Viviamo con uno scetticismo quasi innato, proporzionale alle nostre disillusioni/delusioni e alla carenza di attenzione per la dimensione interiore.
Dimensione interiore e spirituale che è l'unica entro cui può alimentarsi la nostra felicità, senza assolutamente per questo aver bisogno di tradursi in forme religiose o credulità consolatorie nel trascendente.
Il razionalismo dominante dei nostri tempi ha inibito nella società occidentale la capacità di vivere in maniera soddisfacente la dimensione spirituale, ed ecco allora che essa cerca (e si illude di trovare) sfogo in forme di credulità che pretendono una dimostrazione immanente della dimensione metafisica: una richiesta contraddittoria che è solo lo specchio di un'insoddisfazione latente.

Di tutto questo "Hereafter" parla, forse mancando di districarsi appieno nelle trame del "paranormale" (ossia di quella che ho chiamato pretesa contraddittoria di una "dimostrazione immanenete della dimensione metafisica") insito nella dote posseduta da George.
Soprattutto tale dote, ma anche l' "esperienza" fatta da Marie, sono (quasi) meri pretesti: ma sono un po' troppo concreti per non "pesare" eccessivamente sulla delicatezza d'insieme.

"Hereafter" resta comunque per me assai felice, importante, e soprattutto mi appare un film da sviscerare, ricco di stratificazioni e suggestioni non immediate. La complessità con cui si confronta è tale che non tutti possono cogliere il senso di suggestioni che possono quindi essere male intese - e questo può essere da altri considerato un limite di una pellicola ostica e meno "piana" di quello che appare. Per me, invece, questo è un motivo di valore, di cui gli altri (anche i migliori) film di Eastwood erano privi: essi mi si presentavano sin troppo "squadernati" e espliciti nei loro "messaggi" sin dalla prima visione. Il che priva secondo me un'opera di quel "mistero" che fa venire desiderio di rimirare e contemplare un'opera d'arte mai sazi: è stato uno dei motivi per cui sinora non ho avuto modo di apprezzare davvero Eastwood come "autore" di cinema. Troppo didascalico: carico di suggestioni immediate, povero della capacità di lasciarmi risonanze interne anche dopo la visione.
"Hereafter" è a mio avviso il suo film migliore.

21 risposte al commento
Ultima risposta 14/03/2011 17.58.19
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