lei regia di Spike Jonze USA 2013
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lei (2013)

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locandina del film LEI

Titolo Originale: HER

RegiaSpike Jonze

InterpretiJoaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara, Olivia Wilde, Scarlett Johansson

Durata: h 2.00
NazionalitàUSA 2013
Generecommedia
Al cinema nel Marzo 2014

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Trama del film Lei

Theodore è impiegato di una compagnia che attraverso internet scrive lettere personali per conto di altri, un lavoro grottesco che esegue con grande abilità e a tratti con passione. Da quando si è lasciato con la ragazza che aveva sposato però non riesce a rifarsi una vita, pensa sempre a lei e si rifiuta di firmare le carte del divorzio. Quando una nuova generazione di sistemi operativi, animati da un'intelligenza artificiale sorprendentemente "umana", arriva sul mercato, Theodore comincia a sviluppare con essa, che si chiama Samantha, una relazione complessa oltre ogni immaginazione.

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Voto Visitatori:   7,46 / 10 (152 voti)7,46Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Migliore sceneggiatura originale (Spike Jonze)
VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR:
Migliore sceneggiatura originale (Spike Jonze)
Miglior sceneggiatura (Spike Jonze)
VINCITORE DI 1 PREMIO GOLDEN GLOBE:
Miglior sceneggiatura (Spike Jonze)
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Voti e commenti su Lei, 152 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI Terry Malloy  @  24/03/2014 21:05:15
   5 / 10
Avessi dato ascolto all'inconscio, che mi suggeriva che da Spike Jonze (l'autore di "Essere John Malkovich", ricordiamocelo sempre) non poteva venire alcunché di così pregevole, forse oggi sarei una persona inconsapevole della follia collettiva che ha travolto il pubblico di "Her", con enorme guadagno riguardo a considerazioni circa il reale valore della bellezza e soprattutto della narrativa fatta bene nel contesto ristretto (sempre più ristretto) del cinema odierno. Invece, ho dato ascolto al rating online, agli amici con gusti normalmente simili ai miei, e all'infido trailer, ma soprattutto alla simpatia naturale che si prova per un ottimo attore come Phoenix (e per Amy Adams, la non molto brava, ma bella Rooney Mara, e per la voce di Scarlett, donna la cui intelligenza è pari solo alla bellezza). Peccato, davvero, che non abbia potuto ascoltare la suadente e sensuale voce della bellissima bionda alleniana, in ossequio alla becera tradizione italiana (ma quale gloria? Quale fasto?) di doppiare il cinema, tradizione che siamo riusciti a peggiorare (e in questo caso, ce ne voleva) con la new entry Micaela Ramazzotti, fulgido esempio di meritocrazia italiana, l'equivalente al microfono della Braschi sul grande schermo. L'importanza che alla voce della pupa di Virzì questo incipit ha tributato è giocoforza spiegata dal ruolo che la voce ha in questo film.

In realtà non molto. Il chiacchiericcio di questo computer è quasi più insulso delle seghe mentali che l'odioso e stereotipato protagonista si fa per (davvero) tutto il tempo del film. Per quanto si sforzi di dargli un'espressione, Phoenix non ci riesce, ma a ben vedere non PUO' riuscirci, poiché il personaggio di Theodore è monoespressivo, sentimentalmente, fisiognomicamente, e anche socialmente. Lo sconforto che mi ha preso alla fine del film non deriva tanto dall'aver assistito a un brutto film (è un fenomeno che, purtroppo o per fortuna, conosco molto bene), ma dall'aver preso consapevolezza che in questo povero imbecille, abulico, tristissimo, emozionalmente livellato, milioni di persone si siano identificate, amandolo alla follia. Io ne ho provato repulsione. E tanto peggio che lo stesso Jonze sembra amare la sua sceneggiatura alla follia, vincendo l'Oscar che meritava, dopo anni passati a far finta di fare cinema indipendente. Avrei capito un certo giudizio negativo e sprezzante, una rappresentazione in negativo di un'idea che ci ripugna, ma il compiacimento tecnico e la centralità armoniosa data a questo impiegatuccio ipermoderno suggeriscono un'adesione fideistica agli ideali etico-estetici di cui il personaggio è portatore. Bravo a non renderlo asfissiante nonostante una centralità che ci fa rimpiangere il buon vecchio (e bello) cinema neo-realista, Phoenix ci prende per mano in un'avventura senza senso alla ricerca del sentimento perduto di questo soggetto: un'avventura che dal tragico passa al deprimente e soprattutto alla purtroppo nota deriva sentimentalistica e pietistica che il cinema (sentimentale) postmoderno ha imboccato da troppi anni a questa parte. Che poi, un autentico capolavoro sulla linea di "Her" quale era "Beginners" ovviamente non se l'è filato nessuno (io stesso l'ho recuperato grazie all'indicazione salvifica di un amico). Poi, lo stesso pubblico che adora questa cag.ata, ha trattato con sufficienza l'ottimo "Noi siamo infinito", sempre più bello ogni giorno che passa, ancorati al vecchio trucco dell'età del protagonista. E difatti è proprio questo il problema: film come The Perks non possono piacere né agli adulti né ai ragazzini. Film come "Her" piacciono a tutti, perlomeno agli adulti, soprattutto ai trentenni. Infatti, il film non è altro che la riproposizione futuristica di una vecchia favola: "C'era una volta un trentenne in crisi, circondato da trentenni in crisi, alle prese con un ex-moglie in crisi e innamorato di un SO (o OS) anch'esso/a in crisi".
L'ultima parte l'ha aggiunta Jonze, e come si può vedere non è poi granché. Alla fine risulta poco chiaro il senso del progetto: parlare dei sentimenti, di chi?
Non capiamo a chi si debba rivolgere l'attenzione poiché di fatto la scrittura è insufficiente: in "Parla con her" di Almodovar il Frocio (rigoglioso esempio di un vero film sentimentale, e non vado neanche troppo indietro) era chiaro che tutto fosse rivolto al personaggio principale, eppure si riusciva in meno tempo a sviluppare una miriade di personaggi, di cui due persino muti (a ben pensarci, questo film è proprio il contrario di "Her"!). In "Her" ci sono al netto 5 personaggi e non c'è n'è uno che abbia attirato la mia attenzione. Il perché? Sono UGUALI al protagonista. Infatti Theodore, pur non avendo nulla a che spartire col mondo della narrativa sentimentale, rimane al centro senza colpo ferire, dal momento che nessuno è in grado di rubargli il posto. Gli unici momenti in cui spicca il suo incerto volo non è durante il rapporto con Samantha, ma (ovviamente) nelle poche scene in cui si confronta realmente col suo matrimonio fallito. A parte il fatto che per quanto le ragioni della crisi non siano chiarite ("Ma perché sei così incazz.ata con me?" dice T. in uno dei rari momenti in cui s'intravvede il suo aspetto umano, quella capacità meravigliosa e devastante della coscienza di crearsi lacerazioni e contraddizioni a partire dall'esperienza), non stentiamo a capire il perché: una coppia che si chiama "coniglietto" a trent'anni o finisce a derubare ristoranti come in Pulp Fiction, oppure è destinata a crollare. Infatti crolla. Lasciando stare la palese asessualità di Theodore (e femmineità), arriviamo alle due scene clou del film, cercando di spiegare le ragioni per cui il film non si regge, nemmeno puntando al sentimentale/personale, quel banale senso di riconoscimento che si attiva specialmente per pellicole del genere:

1) La firma delle carte 2) Il finale (ovvero, la lettera a Kathrine)

Le due scene stridono sotto vari aspetti: la vita di questi umanoidi jonziani è soffocata dalle comodità della tecnologia, e questo ha effetti disastrosi sulla loro capacità di creare, costruire e saldare un rapporto. Eppure, la bellezza della scena del divorzio si fonda proprio sul suo aspetto "normale". Siamo davanti a una banale scenucola da centovetrine, per carità, ma rispetto all'asetticità bamboleggiante e mielosa del resto del setting, mi ha saputo di "boccata d'aria". Infatti salta fuori la vita reale. Non in quelle patetiche immagini da repertorio/pubblicità ikea con spostamenti dei divani (costruire casa), scene di coccole, sguardi e risate, scene di follia serale (non mancano neppure in "E ora parliamo di Kevin", altro filmettino postmoderno) che rievocano un Passato la cui normalità e banalità è sconcertante, ma nel momento del Presente. Il presente è una donna che ti guarda in cagnesco, ma si ferma a mezz'aria quando deve apporre l'agognata firma (tre mesi). Perché? Personalmente sono sempre stato affascinato e addolorato dalla capacità che abbiamo di passare dal più tenero e profondo sentimento amoroso alla più totalizzante e feroce rabbia contro chi ha deluso/tradito la nostra devozione. Io credo che ci fossero almeno gli spunti per un racconto edificante/moraleggiante. Non sarebbe stato così male, soprattutto a vedere il pastrocchio che è saltato fuori evitando l'happy ending ottocentesco, e infilandoci quello contemporaneo. E questo ci porta a 2.

Rilevo una certa distanza anche solo nel modo in cui T. si rivolge a K. Egli detta la lettera a voce, ritornando all'oralità, ai primordi. E di fatto pronuncia l'unica vera lettera falsa della sua vita. Si inganna perché crede che tutto il suo mestiere di "scrittore" l'abbia portato a quella lettera. Quando dice al suo collega, che lo "adora" per come sa parlare la lingua dei sentimenti comuni, "Sono solo lettere di altre persone", egli in realtà non si accorge che nonostante tutto quelle lettere, per quanto non "originali", rappresentano un mondo di sentimenti reali di vite che vanno avanti nonostante l'inganno di cui quella società è portatrice. Le lettere parlano di emozioni, di relazioni vere. La sua invece parla di sconfitta. A ben pensarci, il contenuto della sua dichiarazione a Kathrine è inesistente. A che pro scusarsi? A che pro informare una donna che non ti vuole più di ciò che penserai sempre di lei, di come la porterai dentro il tuo cuore? Theodore rappresenta uno degli aspetti più feroci della psicologia umana, l'autoinganno. Invece che alzarsi dalla sedia, uscire dal mondo ovattato e rassicurante della tecnologia e della solitudine annacquata con la tristezza, e riconquistare il cuore della donna che ama alla follia, preferisce un finale letterario, sentimentalistico e vagamente piagnone, fatalista. A ben pensarci, a che serviva tutta la storia di Samantha?

19 risposte al commento
Ultima risposta 29/03/2014 18.03.56
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