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"Her" in italiano si intitola "Lei". Sarebbe perfetta come traduzione, fosse "lei" solamente complemento oggetto. Ma in italiano "lei" è ormai anche soggetto. Così, la percezione della parola secondo la dizione comune falsa la sottile allusione contenuta nel titolo originale. "Her", infatti, in luogo di "she", è indizio preciso: implica una relazione. Lei, "her", è destinataria di qualcosa. Di curiosità; di desiderio. Di amore. Il soggetto è Theodore.
Theodore - soggetto introverso e mite - per lavoro scrive lettere private per conto terzi. Una professione curiosa, ma verosimile nella nostra era digitale (chi non si è mai ritrovato a mandare cartoline d'auguri da siti dedicati? O a cercare, sul web, frasi adatte a specifiche circostanze?), che Theodore esegue con bravura, spesso con passione. Theodore è divorziato, vive solo, e pensa costantemente alla sua ex. Quando arriva sul mercato una nuovo sistema operativo personalizzabile, dotato di un'evoluta intelligenza artificiale, comincia a sviluppare con la propria versione di questo sistema (Samantha) una relazione che diverrà complicata: parecchio complicata, e dagli sviluppi imprevedibili.
Alla sua prima pellicola interamente sceneggiata in proprio, Jonze ha realizzato il suo film più bello. Curiosamente, vi è giunto bandendo la sperimentazione visiva e narrativa delle sue opere precedenti, ma realizzando un film drammaturgicamente lineare, di stampo classico, affidato a un elemento di forte originalità: l'assenza fisica della protagonista femminile, che dà il titolo al film. Tra l'altro, per la splendida interpretazione vocale di Samantha, Scarlett Johansson ha persino vinto il premio come miglior attrice al festival di Roma 2013 (ci auguriamo che il doppiaggio di Micaela Ramazzotti, non male stando al trailer, possa rivelarsi adeguato).
Si sente bene, ad ogni modo, che Jonze in passato ha collaborato con Charlie Kaufman (sceneggiatore di "Essere John Malkovich", 1999, e di "Adaptation - il ladro di orchidee", 2002). Il soggetto di "Her" ha più di un debito con l'universo poetico del geniale Kaufman.
Kaufman, poi, è anche lo sceneggiatore di quel capolavoro del 2003 che era "Eternal sunshine of the spotless mind", diretto da Michel Gondry: una pellicola, oggi di culto, alla quale "Her" sarà senz'altro raffrontata, diventando, azzardiamo, oggetto di culto analogo. Molte infatti le affinità, le suggestioni comuni alle due pellicole, che si confrontano entrambe - sia pur con modalità narrative diverse - con il tema della rimozione e della persistenza della memoria emotiva, e della tentazione di sottrarsi al confronto con un partner, in un'era, quella del cosiddetto web 2.0, in cui l'individuo si sente più solitario pur in presenza di una foltissima compagnia di "amici" virtuali. Un'era nella quale, inoltre, la convergenza uomo-macchina inizia a presentare risvolti insoliti, come profetizza Cronenberg a modo suo già da qualche decennio.
Per quanto concerne in particolare la tendenza all'introversione, alla virtualizzazione solipsistica delle relazioni umane (anzitutto sentimentali), un altro film recente che dialoga intimamente con "Her" è quel gioiello di "Ruby sparks" (2012), la seconda prova registica della coppia Dayton-Faris (quelli di "Little miss sunshine", 2006).
Il desiderio primario di Theodore - lo stesso dei protagonisti di "Essere John Malkovich", di "Il ladro di orchidee", e anche del bambino di "Nel paese delle creature selvagge" - è quello di essere amato, sentirsi importante per qualcun altro. Risponde al semplicissimo bisogno di sentirsi più vivo, e più felice, di quanto non si sia da soli.
"Her" si svolge in una Los Angeles che con piccolissimi aggiustamenti è resa futuribile, appena di poco. Gli ambienti, nel film, sono tutti asettici e ordinati; coloratissimi eppure freddi. Una realtà divenuta confortevolmente spersonalizzante. Familiare eppure aliena. In questo contesto urbano che imprigiona solitudini, di Theodore avvertiamo, sin da subito, la repressa insofferenza e frustrazione, cui proprio il suo paradossale lavoro fornisce una ancor più paradossale via di fuga. Il suo intimo bisogno di fuggire, dalla realtà, è smarrito in un cortocircuito di solitudine dal quale lo scriver lettere per gli altri, immaginando e vivendo sentimenti non suoi, non lo aiuta a uscire.
A interpretare Theodore, il protagonista assoluto della pellicola è Joaquin Phoenix, di una bravura mostruosa in un ruolo nel quale ha dismesso il suo fascino esteriore - con un esercizio di trasformismo non troppo lontano da quello cui si è sottoposto fisicamente per "The master" di P.T. Anderson (2012). La riuscita del film passa attraverso la capacità di Phoenix di recitare ascoltando. Nelle conversazioni con Samantha, Theodore infatti è l'unico a essere inquadrato. I rischi impliciti nell'annullamento del campo/controcampo che in tal modo il film richiede, sono stati brillantemente superati, da Jonze, grazie alle eccezionali capacità mimetico-espressive del volto di Phoenix.
Veniamo a ciò che fa di "Her" un grande film. Non è l'ennesima pellicola, ultima venuta, che stigmatizza negativamente i rischi che la realtà virtuale inaridisca ulteriormente i rapporti umani. Se così fosse, sarebbe semplicemente un film noioso: moraleggiante, e soprattutto fuori tempo massimo. Jonze non fa la morale al progresso tecnologico. Tutt'altro. E' convinto (e pensiamo abbia ragione) che, più di tanto, i rapporti umani non possano inaridirsi: in quanto immortale è il nostro bisogno di contatto e amore. Talmente universale, anzi, da contagiare persino le macchine, che diventano capaci pure loro, come Samantha, di soffrire per amore.
Jonze mostra non solo confidenza, ma anche di essere affascinato, dalle possibili implicazioni della convergenza digitale-esistenziale prossima ventura. Ma intanto parla di noi come siamo qui e ora, e sempre: universalmente alle prese con il bisogno di gettare un ponte tra la nostra solitudine e qualcuno da amare e da cui essere amati. Alle prese pure, come sempre, con la vertigine che quel ponte, privo com'è di appigli e parapetti, genera una volta che lo si prova a percorrere. Lì su quel ponte, il bisogno dell'altro si scontra con la paura della destabilizzazione, con la perdita delle sicurezze che ci sono garantite dalla nostra solitudine.
Tutto ciò, se universale, si declina oggi - tra realtà virtuali, web 2.0 e confidenza feticistica con strumenti digitali sempre più smart - in forme nuove e inusitate. Un film come "Her" non è altro che un'allegoria di questi mutamenti esteriori. Jonze non stigmatizza qualcosa che è ovvio e tutti sanno (la digitalizzazione delle comunicazioni amplifica la solitudine, e blandisce le forme di conforto garantite dallo star soli). Ma "Her" non è mai un film pessimista, è sempre pervaso da un filo di luce. Anche nei momenti più malinconici, il ripiegamento solipsistico non si converte mai in disperazione. Rimane sempre potente l'aspirazione a instaurare un contatto più profondo con l'altro-da-sé.
E Jonze comunica questa basilare positività mettendo proprio noi spettatori per primi in condizione di provare, se non proprio affetto, un'intima empatia con Theodore - che pure reale non è (eppure esiste) per noi spettatori. Esattamente come non è reale Samantha (eppure esiste) per Theodore...
"Her" - film estremamente ricco di sfumature emotive, malinconico e divertente, coinvolgente e a tratti commovente - è un esperimento cinematografico straordinariamente riuscito. Avviluppa lo spettatore, ne cattura il cervello, lo proietta dentro Theodore come fosse, Theodore, lo spazio interiore del John Malkovich del celebre film del 1999. "Essere Theodore". Ci troviamo intrappolati dentro di lui, come Samantha è a sua volta intrappolata dentro un sistema operativo eppure aspira, prima che a una fisicità, a una dimensione propria di libertà. In fondo, cosa si nasconde dietro la disumana pletora di relazioni amorose stabilite dai sistemi operativi come Samantha, se non un disperato, incontrollato bisogno di entrare in contatto (declinato secondo le possibilità consentite dalla propria natura digitale)?
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/03/2014 14.43.00
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