Voto Visitatori: | 8,56 / 10 (62 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,50 / 10 | ||
"Nashville" ci aveva incantato.
Là Altman, adoperando come tinte le note della musica country, con il suo cinema corale e raffinato, aveva affrescato per noi il sogno americano: un vasto sonno desolato, devastante, da cui non ci si risvegliava.
Quasi vent'anni dopo - ci fa notare il regista - non molto di quel panorama è cambiato: l'apocalisse persiste, forse più pressante, anche in questo nuovo film bellissimo, "America oggi".
Ma è un'apocalisse, quella del regista, mai immediatamente visibile, mai davvero rumorosa; passa per i luoghi e nei tempi del quotidiano e ha nella sua durata, più ancora che nell'ampiezza, il suo primo aspetto allarmante.
Non è insomma la fine del mondo, la vera catastrofe che si viene a denunciare: bensì la sua continuazione, il suo prolungarsi inerte, indolente, senza rimedio.
Il film è contenuto, e in esse trova la propria definizione, tra due chiare metafore, poste agli estremi e che coinvolgono tutti: gli elicotteri che, a inizio film, spargono una sostanza insetticida sull'area sottostante; e infine un terremoto, non tanto violento da far cadere giù edifici, ma abbastanza avvertibile da fermare per qualche istante tutti i protagonisti, in ascolto.
All'interno di queste due immagini simboliche, entrambe annunciate dalla televisione - che è poi protagonista anch'essa, e tra i più presenti e fondamentali - la vita, anzi le vite (nove storie per la precisione), diversamente fallimentari e un tantino eccentriche, di amanti, famiglie, artisti, individui, gente, ispirate ai racconti di Raymond Carver e per una durata complessiva di circa tre ore, s'intrecciano, tessendo uno stuolo pregno di un'amara e disincantata poesia metropolitana.
Altman osserva, ascolta come dietro un vetro. Talvolta, zooma sull'espressione o sul gesto di qualcuno di loro, in maniera cauta, o s'allontana, attento a non far sentire la sua presenza.
Sembra, quasi, che non siano gli attori ad attivarsi quando si dà il via a una scena, ma viceversa che sia la telecamera a entrare e uscire di nascosto, a sequenza già in corso, e che quelle vite, crude e crudeli così come le vediamo, siano cominciate e vadano proseguendo al di fuori del set.
E più che le singole storie, tutte comunque molto belle, ha importanza il loro insieme: se s'indietreggia dal quadro, se lo si guarda da una certa distanza, nella sua globalità, mentre la conversazione isolata e l'avvenimento occasionale si stemperano, allora l'effetto è quello voluto, d'una immensa monotonia, d'una caotica desolazione.
Serve insomma la stessa lontananza adottata dal regista nel filmare le vicende, in cui è insita sì una dissociazione, ma non soltanto: c'è in questo tenersi distanti un atteggiamento rispettoso, di compassione e comprensione, una volontà di non immergersi troppo per meglio non giudicare.
Mantiene un divario, ma non abbandona veramente nessuna di queste storie.
Resta pur sempre nei paraggi. E se ne lascia una, è perché sente il peso della moltitudine. Sa che al di fuori di essa ce ne stanno altre in attesa e, comunque, puntuale vi torna.
In tal modo spezza la narrazione ma prova, e riesce, a tenerla insieme, usando il difficile collante del caso, e aiutato dalla bravura di tutti gli attori.
"Short cuts" recita il titolo originale: tagli corti, tratteggi, scorciatoie.
S'intrecciano. Ma nel momento in cui vengono a contatto, sempre apparentemente in maniera fortuita, i protagonisti delle varie storie, sembrano non accorgersene, spesso s'ignorano l'un l'altro, pur dove quel momento coincide a un fatto o a una decisione decisivi.
Quando la barista investe il bambino, lì le loro storie s'incontrano, collidono gravemente, eppure non restano incastrate.
Del resto, tante situazioni tragiche, comiche, sentimentali, ciniche, poetiche tutte insieme soffrono una convivenza forzata.
Così vediamo la cantante jazz e la violoncellista, madre e figlia, suonare musiche incompatibili e chiuse in loro stesse, depresse, sorde, ostinate, entrambe fuori moda.
Vediamo una moglie, in un brano di abbagliante realismo, tra la miseria del disordine casalingo, sorvegliata dallo sguardo mortificato del marito, mentre cambia il pannolino al bimbo e nel frattempo opera il mestiere di telefonista erotica.
Vediamo la grande responsabilità in quel cadavere gonfio, che aggalla, accanto alla trascuratezza del gruppo di amici decisi a continuare la loro gita di piacere.
Vediamo un nonno, estraneo venuto da un palco ignoto che ha fatto la sua comparsa con un giochetto di prestigio, di spalle allontanarsi dalla scena tragica, col fare di un vecchio attore accortosi d'essere fuori parte.
E poi altri segmenti, altre solitudini, altri fallimenti, altre bugie, altre ripicche, altri short cuts, tutti descritti ironicamente con una leggerezza che è propria della commedia, e raccolti dentro un impianto che non a caso ricorda quello di una telenovela.
Sì perché come in ogni altro film del regista, c'è ovunque spruzzata una fredda ironia, amarissima - si pensi per esempio al tremendo equivoco che capita al pasticcere.
Un'ironia che del resto era già annunciata nell'introduzione; in quell'epidemia della mosca della frutta, di cui il notiziario dava ragguagli; o in quei mezzi che sorvolano la città vanitosa, Los Angeles, imitando un'azione di guerra, o il giungere degli improbabili cavalli di un'apocalisse.
Quando però, nel finale, troviamo in mezzo allo squassamento del terremoto, nel suo epicentro - noi tenuti a maggior distanza di sicurezza, noi impossibilitati a intervenire, noi esasperati, e commossi, da questo film monumentale dai tratti essenziali - gli occhi sgomenti del marito sorpreso con la pietra insanguinata in mano; tutta cade allora al suolo questa leggerezza.
E altrove, nel breve sisma, c'è chi brinda ancora, chi canta la sua disperazione, chi è scosso da una momentanea passione, chi prova un briciolo di pietà (seppure di circostanza) come il pasticcere, chi cerca riparo davanti allo sguardo impassibile della tv, unica superstite di un appartamento disastrato... E poi la vita che continua, lo spettacolo deprimente che continua, l'apocalisse e i deserti televisivi che continuano.
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 14/06/2010 11.39.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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