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Secondo una consolidata abitudine, da una parte giustificata da un anacronistico patriottismo, dall'altra da un più concreto opportunismo dei critici nostrani, esiste la consuetudine di accogliere in modo benevolo i film italiani. Come se una critica favorevole potesse riuscire a riscattare le sorti di una cinematografia moribonda, che spesso confonde piccoli segni di vita (chiamasi "Il divo" o "Gomorra") come inizio di una improbabile guarigione. Quando anche i grandi autori non riescono più a portare in sala film degni di questo nome, allora forse è arrivato il caso di staccare la spina e ricominciare daccapo.
Forse in molti potranno trovare tale analisi eccessiva, ma quando anche gli ultimi film di Giordana, Bellocchio, Avati o Placido non riescono a riscattarsi da una generica mediocrità (spacciata per autorialità), forse c'è da considerare in modo attento le feroci critiche mosse dal ministro Brunetta al Festival di Venezia di quest'anno.
"Baarìa" è l'ennesimo esempio di un cinema che non sa più ragionare, che ha perso non solo l'ispirazione ma anche il senno. Secondo quale logica di buon senso sia possibile attribuire un budget spropositato (25 milioni di euro) ad un regista che ha dimostrato di dare il meglio di sé in film di basso profilo, difficilmente si riesce a comprendere.
Chi conosce Tornatore ricorderà piccoli gioielli come "Il Camorrista", "Una pura formalità" e "La Sconoscita"; film a basso costo capaci di catalizzare lo spettatore con sceneggiature di ferro e ritmi ipnotizzanti. Il Tornatore dei grandi kolossal è quello che ha dato le maggiori delusioni sia artistiche che commerciali, come con "Malena" o "La Leggenda del pianista sull'oceano". A prescindere da qualsiasi valutazione artistica, l'augurio è che "Baarìa" possa diventare un grande successo al botteghino ma, nonostante la pompatissima campagna stampa che confonde un primo posto in classifica con un successo commerciale, va sottolineato che i risultati attuali restano ancora lontani anni luce da un pareggio di bilancio.
Come l'Avati de "Gli amici del bar Margherita", che mette in scena i racconti della sua infanzia di provincia (ed è stato visto forse dagli amici di gioventù del regista e da qualche maleaugurato spettatore ingannato dal nome del grande autore emiliano), anche Tornatore compie lo stesso esperimento, e sorprende visto che è uno dei pochi registi in Italia ad avere una visione globale del cinema, capace di guardare senza finti snobismi le grandi industrie cinematografiche statunitensi o francesi. È evindente che il film ha la pretesa di essere un successo all'estero (altrimenti non si spiegherebbe l'ingente investimento della Medusa, considerando che è matematicamente impossibile un ritorno nel solo mercato italiano), anche se forse sarà difficile convincere un francese o un americano ad andare al cinema a vedere la storia di una cittadina costiera della provincia di Palermo, girata in dialetto siciliano.
Per carità nulla di male: ognuno investe i propri soldi nel modo che meglio crede e per perseguire le finalità che ritiene più opportune; resta il fatto che questo è l'ennesimo esempio di cinema che non guarda al mercato. E forse non è nemmeno il caso di appellarsi al mercato per trovare i limiti enormi di questo lavoro.
"Baarìa" è la summa di tutti gli errori degli autori nostrani: autoreferenzialità, formalismo e inconcludenza.
La storia ha come protagonista Peppino, raccontandone l'infanzia fino alla sua militanza politica, in 40 anni di storia del nostro Paese. Ma attenzione: Tornatore non si ispira (purtroppo) a "La meglio gioventù"; il punto di vista del racconto non è quello storico come nel film di Giordana, ma quello dei ricordi. In realtà l'intero soggetto sembra essere una rievocazione quasi mitologica del luogo di provenienza del regista con un evidente e quanto mai abusato nel nostro Paese, effetto nostalgia.
Ecco quindi che il film si traduce in una serie di piccoli aneddoti che vanno dalle antiche processioni paesane ai primi amori, al signorotto del paese, alla vecchiette che spettegolano fuori dalla chiesa, ai giochi dei grandi fino al dramma della guerra, alla ricostruzione e al significato della militanza politica nell'Italia degli anni '60.
Tornatore porta in sala un'agiografia della Sicilia, cosa accettabile in una fiction ma difficilmente comprensibile al cinema.
In realtà tutta questa rievocazione risulta essere fine a se stessa: i personaggi non sono veri ma distorti, non c'è caratterizzazione ma solo stereotipo e macchietta. La Sicilia dei primi del '900 viene raccontata come un piccolo eden di provincia, vita sana e volemose bene. Non che Tornatore voglia eludere le problematiche del tempo, ma tutto è raccontato con una sottotrama goliardica francamente improbabile: il mafioso è un signorotto che passeggia allegramente per il paese, la repressione fascista è uno scherno continuo contro i gendarmi, che davanti alle prese in giro della popolazione fanno spallucce o al massimo, sbuffando, portano i burloni a farsi una passeggiata. Se una donna della Sicilia della prima metà del '900 decide di non rispettare il volere della famiglia che l'aveva promessa in sposa a un ricco signore del posto, dando scandalo in paese, la si accontenta e torna il sereno. Tutto è bello a Bagheria, tutti si vogliono bene, l'intero paese è una grande famiglia dove convivono tutti in armonia e felicità. Con la fame, con la guerra e con la miseria, le uniche cose importanti sono la famiglia e l'amore: il festival del qualunquismo.
A prescindere poi da qualsiasi semplificazione narrativa, il difetto più grave di questo film è forse la sua inconcludenza: non riuscendo a comunicare un messaggio organico, "Baarìa" resta sospeso tra un tentativo di denuncia di una corrotta modernità ad una sottotrama ambientalista alquanto superficiale. In alcuni tratti il film dà poi per scontata la conoscenza di gran parte degli avvenimenti storici della Sicilia del dopoguerra, e non sempre è facile riconoscere le epoche che il racconto sta attraversando. Difetto di non poco conto considerando che il film vuole rivolgersi ai mercati esteri.
E dire che la potenza visiva è notevole, così come eccezionali sono i movimenti di macchina e la fotografia. Ogni aspetto tecnico e curato nei minimi particolari, e si vede che il film è stato molto amato e portato in scena con grande cura. La ricostruzione della Bagheria del passato è convincente, le grandi panoramiche mostrano un regista compiaciuto dei suoi mezzi . Tornatore si conferma un grandissimo direttore degli attori, il protagonista semiesordiente Francesco Scianna è convincente così come lo sono i tanti bambini che hanno partecipato alla realizzazione del film.
Quello che risulta difficile comprendere è il motivo per il quale si sia fatto un uso così spropositato di comparse di lusso, da Placido a Gullotta da Salemme a Bova, dalla Chiatti a Beppe Fiorello, che partecipano in cammei insignificanti sottolineando una presenza pretestuosa legata più che a esigenze artistiche, a motivi chiaramente commerciali.
Le musiche rindondanti di Ennio Morricone rendono in pieno l'aspetto monumentale del film, ma in alcuni tratti si sarebbe preferito un profilo più basso.
Candidato italiano all'Oscar come miglior film straniero, è stata più che altro una scelta obbligata vista la mancanza di reali alternative; anche se paradossalmente il tono estremamente positivo che tanto piace all'Academy ne fa una scelta con maggiori probabilità di successo rispetto al bellissimo "Gomorra" dello scorso anno.
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Recensione a cura di Paolo Ferretti De Luca aka ferro84 - aggiornata al 13/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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