Recensione dogtooth regia di Yorgos Lanthimos Grecia 2009
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Recensione dogtooth (2009)

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locandina del film DOGTOOTH

Immagine tratta dal film DOGTOOTH

Immagine tratta dal film DOGTOOTH

Immagine tratta dal film DOGTOOTH

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Immagine tratta dal film DOGTOOTH
 

Una delle cose di cui spesso ci si dimentica è che il "Cinema" non è solo una forma di intrattenimento. Certo, nasce in quanto tale (non meno di quasi tutte le arti), ma proprio in quanto "arte" ambisce, a volte, a voler essere qualcosa di più.
Il cinema, come la letteratura fino a pochi secoli fa, può essere infatti anche rappresentazione. Di una realtà, di uno stato, di una condizione esistenziale. E quando va dal particolare all'universale, lì sì, assurge ad arte.

Yorgos Lanthimos è un regista greco di 37 anni, viene dal teatro e nel 2009 ha esordito a Cannes con il suo secondo lungometraggio dal titolo "Dogtooth" ("Kynodontas", dente canino), vincendo nella sezione "Un Certain Regard".

"Dogtooth" è un film esplicito, ma non di facile fruizione. E' la storia di tre ragazzi (due femmine e un maschio) reclusi dai loro genitori nella loro casa, una villa con giardino e piscina, da cui è impossibile qualsiasi contatto con l'esterno.
Il mondo al di fuori, infatti, a dir del padre e della madre, è un posto pericoloso abitato da gatti feroci e ghiotti di carne di bambino. L'unica maniera per uscire da questa prigione dorata è diventare adulti, cosa che avviene solo con la caduta di uno dei due canini (cioè mai).
Nel frattempo, i "bambini" vivono un'esistenza tra giochi e competizioni inventate dal padre, vengono istruiti in casa e crescono pensando che gli aeroplani siano giocattoli e gli zombie piccoli fiori gialli. L'unico contatto con il mondo esterno è una ragazza, portata ciclicamente dal padre per far si che suo figlio possa espletare i propri bisogni sessuali.

Caratterizzato da un assordante uso del silenzio e da un calmo ma incessante incedere di spazi bianchi, "chiusi" e claustrofobici (persino quando l'azione si sposta all'esterno), "Dogtooth" è un film dal rigore disarmante, un concentrato di fredda tecnica cinematografica dai chiari risvolti socio-politici che non disdegna di appoggiarsi a stilemi più o meno consolidati da altri autori.
I riferimenti ad artisti come Michael Haneke e Lars Von Trier sono, infatti, plateali, e il regista greco dimostra di aver appreso bene la lezione dei suoi "maestri", senza per questo rinunciare ad una propria autorialità e originalità.
Il risultato è una freddezza espositiva che diventa distacco emotivo, una dilatazione dei tempi e uno sguardo morboso ma lucido, dai tratti inquietanti e dai pochi orpelli, che però non rinuncia ad una quasi (mai) liberatoria commistione tra i generi. Dramma e grottesco, orrore e commedia nera, il tutto condito da punte surreali, si alternano in un valzer di celluloide che ben presto si trasforma in turbinio, fino all'inevitabile precipitare degli eventi nel criptico finale.

Da un punto di vista cinematografico, il primo aggettivo che vien voglia di associare a "Dogtooth" è nichilista, caratteristica che si traduce in un tentato annientamento dei valori conosciuti (in questo caso i canoni cinematografici) e di rinascita ad una nuova "realtà".
In effetti Lanthimos, nel suo film, si prodiga in uno svuotamento del mezzo cinematografico, affidandosi a riprese fisse, lunghi silenzi e scenografie disadorne, cercando così di liberarsi degli elementi costrittivi e limitativi che proprio i canoni cinematografici attuali impongono.
Niente di nuovo sotto il sole, visto che un tentativo simile (ma molto più estremo) era stato fatto dal "Dogma 95", pur con esiti fallimentari.

"Dogtooth" non è però solo meta-cinema. E' anche una riflessione esplicita sul sistema famiglia, svuotato di ogni connotazione positiva, e riuscita parabola del totalitarismo.

Da questo momento la recensione contiene elementi di spoiler; se ne sconsiglia pertanto la lettura a chi non avesse ancora visto il film.

Tra le prime cose che saltano all'occhio durante la visione del film è che la famiglia protagonista di "Kynodontas" non ha nome. Nessuno, all'interno della stessa, ha un nome e quindi nessuno, nonostante sia un individuo, è dotato di individualità.
E' proprio sui nomi (degli oggetti, delle persone, dei luoghi) che, scopriamo subito, viene attuato un controllo quanto mai particolare: non la negazione dell'esistenza di un oggetto ma quella della sua identità. E così il "mare" diventa una "poltrona", l'"autostrada" un "vento molto forte" e un'"escursione" un "materiale duro".
L'essere umano, che dà nome alle cose per poterle riconoscere ed identificare in un codice universalmente riconosciuto, perde il controllo sulla realtà e viene, a sua volta, controllato da chi invece possiede tali conoscenze.
Nel film chi detiene il potere è il padre (padre/padrone, con una consorte completamente subordinata a lui ma consenziente), che attua sul piccolo sistema familiare un controllo di tipo dispotico. Il controllo di tre individui nati in cattività non è però quello di una nazione: è più simile invece a quello di animali domestici.

In effetti il titolo "Dogtooth" dice già molto sul significato del film: in un certo senso qui si parla di cani.
E' così che i due genitori hanno allevato i loro figli ed è così che li controllano. Ai "bambini" (in realtà ragazzi ormai adulti) viene insegnato a leccare il loro padrone (il padre), ad aver paura dei gatti (carnivori e terribili) e ad abbaiare contro i pericoli che possono, dall'esterno, minacciare la loro casa. Gli viene persino fatto credere che sia dal ventre della madre che i cani (quelli veri) vengono generati mentre il sesso diventa semplice espletazione di bisogni corporei, in seguito ad un'idea di godimento assente e limitata alla semplice gioia del vivere familiare.
Un vero e proprio lavaggio del cervello che porta all'alienazione e al distacco da qualsiasi altro tipo di sistema, politico o sociale che sia.
E' in tutto questo che si inserisce Christina. Lei è l'elemento estraneo, l'individuo che venendo dall'esterno, destabilizza la famiglia.

Christina è l'agente di sicurezza nell'azienda dove lavora il padre (l'unico ad uscire di casa). Il fatto che abbia un nome indica già il suo non appartenere a quel sistema fittizio ma alla "realtà", al mondo esterno. Questo pezzo di realtà, in maniera inizialmente impercettibile, mischia le carte in tavola e si insinua nella finzione, annullandola: Christina, pagata per fare sesso con il figlio, regala la videocassetta di un film alla figlia maggiore, in cambio di una prestazione sessuale che cerca nel puro godimento il suo fine (deve leccargli la "tastiera").
Sarà' quindi quel film che, mostrando alla ragazza una realtà altra da quella che lei conosce, determinerà una catena di eventi che porterà ad una presa di coscienza di se (la figlia decide di darsi un nome) e dell'altro (c'è altro al di fuori della casa) e quindi al cambiamento, con risultati devastanti.

Ecco che di nuovo il cinema diventa meta-cinema: l'irreale diventa più reale del reale.
Comportamenti normali, inseriti in un contesto anormale (il desiderio della figlia di aver un nome, come i personaggi del film che ha visto) si tingono di follia. Ed in fondo è proprio questo che succede in un sistema totalitario: l'uniformità di pensiero fa passare l'individualità per qualcosa di sbagliato, di diverso e inaccettabile. A farne le spese sarà la stessa Christina, subito messa fuori gioco e sostituita, ma non solo...

L'elemento destabilizzante mette in crisi il sistema famiglia, tenuto insieme dal padre attraverso un uso costante del terrore, della violenza e della competizione. E se prima i figli facevano quanto veniva loro chiesto, partecipando persino a vere e proprie gare per ottenere i favori paterni, adesso la consapevolezza dell'esistenza di "altro" ne riduce la possibilità di controllo e il fallimento del sistema stesso.
Il finale, in questo senso, è emblematico: non la sconfitta di un uomo ma quella di un'idea, il crollo delle convinzione e la messa in luce dei pericolo derivanti dall'estremizzazione ed esasperazione del sistema educativo e della famiglia come ente (educativo) primo e più importante.

Chi avrà la forza per sostenere il peso delle immagini e dei significati di un film come "Dogtooth", si troverà di fronte ad un film importante che però non dice nulla di nuovo rispetto al passato. Tanti altri registi hanno parlato, infatti, dei medesimi argomenti. Lo hanno fatto David Lynch, Pierpaolo Pasolini (l'immagine dei prigionieri di "Salò" trattati come cani è una chiara citazione, anche se forse non voluta) ma anche M. Night Shyamalan ("The Village", che con "Dogtooth" ha diversi punti in comune). A Lanthimos rimane il merito di aver esplicitato un pensiero comune, di averlo estremizzato e condensato in un ora e trentaquattro minuti di (anti) cinema.

Diverse sono le scene importanti, che restano nella memoria anche a giorni di distanza dalla visione. Su tutte l'inquietante sequenza in cui, in uno dei tipici dopocena familiari, il padre fa ascoltare ai bambini una canzone di Frank Sinatra, spacciato per il loro nonno. L'ascolto, che avviene nel silenzio più totale, diviene una puntuale occasione per fare propaganda attraverso il cambiamento del significato delle parole: il testo, riletto dal patriarca, diventa un elogio della famiglia e di chi ne è a capo. Anche la comunicazione, quindi, viene subordinata al "sistema". Assente quella con l'esterno, quella interna viene manipolata e asservita.
Non meno importante è il finale, che ricorda le tipiche chiuse dei fratelli Coen e che si contraddistingue per forza e - ancora una volta - nichilismo: un taglio netto che non può non lasciare interdetti ma che, pensandoci, è perfettamente in linea con tutto il resto. Lanthimos ha raccontato quello che doveva, non c'è bisogno di altre parole, ne di altre immagini.

"Dogtooth" è il primo film della Boo Productions, una casa di produzione ateniese. Scritto a due mani dal regista e da Efthymis Filippou, fu finanziato per gran parte del budget dal "Greek Film Center". Il film, inizialmente, sarebbe dovuto essere un semplice cortometraggio.
Tra gli attori Anna Kalaitzidou e Christos Passalis (rispettivamente Christina e il figlio) avevano già collaborato con regista in passato, mentre Mary Tsoni (la figlia più giovane) è in realtà una cantante e non un'attrice professionista.

Yorgos Lanthimos attua l'annientamento del cinema e la sua rinascita. Cosa ci sia dopo non è dato saperlo. Forse la semplice consapevolezza che al di là di quel che sembra c'è sempre altro.

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Recensione a cura di Zero00 - aggiornata al 24/09/2010 12.07.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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