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Werner Herzog gira, a neanche trent'anni, il suo grande capolavoro, "Fata Morgana", terzo lungometraggio che viene dopo film del calibro di "Segni di vita" (1968) premiato a Berlino con l'Orso d'argento e realizzato su un'isola greca dove vengono narrate le avventure belliche di un soldato tedesco nella seconda guerra mondiale, una pellicola che stranamente non viene distribuita in Italia, e film di grande impatto esistenziale come "Anche i nani hanno cominciato da piccoli" (1970), un'opera alla ricerca di verità scomode che si cala coraggiosamente sui problemi legati alla emarginazione del diverso la cui problematica viene da Herzog alla fine relativizzata, attenuata, sottolineando come alcuni aspetti della diversità sono presenti nell'inconscio di tutti: "C'è un nano in ciascuno di noi" .
"Fata Morgana" (1971) pur avendo un certo legame estetico con i precedenti due film se ne discosta per stile e codici visivi, soprattutto perché quest'ultimi sono molto più intensi, ricercati, a volte addirittura inventati grazie a un particolare montaggio che segue per immagini, pedissequamente, un racconto antico, originale, poeticamente superlativo: una combinazione visiva e sonora riuscita, che nel suo insieme stupisce riuscendo nel contempo a creare visioni vicine all'allucinazione, di grande effetto, tali da portare numerosi cinefili a forme di delirio visivo.
Questo film risulta il primo di una futura trilogia di cui faranno parte anche "Apocalisse nel deserto" (1992) sullo stesso filo di "Fata Morgana", e "L'ignoto spazio profondo" (2005) racconto fantascientifico di un alieno Dourif proveniente da un altro pianeta.
Il film è stato presentato nel Quinzaine des Realisateurs al festival di Cannes nel 1971 ed è stato girato da sole due persone: Herzog e l'operatore Jorg Schmidt-Reitwein. La pellicola non ha avuto successo al botteghino ma è stata ben premiata dalla critica che gli ha dedicato un particolare interesse per la fotografia e molta attenzione per l'originalità filosofica dell'opera.
Le musiche del film sono eccezionali per scelta e attinenza al tema trattato, esse sono riuscite a potenziare il gioco estetico d'insieme del racconto, mettendolo in relazione con l'inconscio dello spettatore, caratteristica questa molto importante della poetica di Herzog che vuol creare tra le immagini reali o metaforiche del film e lo spettatore un'attività onirica estremamente coinvolgente, personale, semisognante dominata da immagini pulsionalmente sovrainvestite. La musica risulta decisiva nel risultato estetico del film almeno quanto le ricche e molto ricercate composizioni fotografiche, e sono di Leonard Cohen, Mozart, Handel, Francois Couperin.
Il titolo del film "Fata Morgana" rimanda al noto fenomeno del miraggio sulle acque tra Reggio Calabria e Messina, narrato anche in alcune leggende epiche celtiche e proveniente dalle esperienze visive di barbari calatisi fin nel sud d'Italia, un fenomeno per cui nelle giornate particolarmente afose e calde è possibile scorgere dalle coste calabresi il riflesso sul mare e sul muro di foschia che circonda l'isola alcuni rilievi della città di Messina, i cui edifici appaiono per miraggio molto più vicini del solito al continente.
In "Fata Morgana" il regista tedesco inventa un genere nuovo, composto da un mix di realismo fotografico e miraggio, esso prende corpo come documentario allucinato, dove la visione di cose mai viste e il suggestivo paesaggio tipico del deserto sahariano colpisce l'occhio con una intensità particolare, trascinando lo spettatore in un altrove di grande efficacia, sempre più lontano dalla coscienza razionale fino al punto di farlo entrare in una sorta di trance allucinante che fa spettacolo in una modalità inedita, esclusiva, e che dà alla fotografia un primato indiscutibile con la sua potenza luminosa rara e costante, la cui scelta dei soggetti da parte dell'autore lascia stupiti per sensibilità e composizione narrativa.
Herzog gira il film nell'Africa sahariana meridionale, il Kenia, la Tanzania, le Canarie e la Guinea.
Il racconto è diviso in tre parti: La creazione - Il paradiso - L'età dell'oro, tratte dal testo sacro degli Indios del Guatemala "Popul Vuh", e vuole essere un punto nuovo di osservazione del mondo, da un'angolazione non più legata alla complessa cultura occidentale, ma scritto con metafore ingenue, semplici, in relazione con alcuni antichi miti religiosi, il contrasto con i quali testimonia del brutale passaggio dell'uomo occidentale su terre non sue, sulla sua arrogante concezione del civile che sembra sempre soffrire nelle sue radici più inconsce di un tribale rimosso che il film porta alla luce come verità ormai negativa, fantasma ineludibile dell'alienazione occidentale, i cui contenuti frantumati sono irrecuperabili all'integrità del vivere, lontani dalla semplicità delle pulsioni tribali ancora in vita, ben incarnate dalle popolazioni più rappresentative del deserto.
Il film inizia con la visione dell'atterraggio di un aereo in una pista vista da una prospettiva molto angolata, la scena viene ripetuta 8 volte, sempre con aerei diversi, finché nell'ultima scena il velivolo e ciò che lo circonda vengono visti in modo indistinto, sbiadito, confuso a riprova di come il riscaldamento dell'intera zona dell'atterraggio influisca sulla chiarezza dell'immagine in movimento nell'aerea dell'aeroporto.
Incomincia poi la narrazione della prima parte del film, intitolata La creazione.
Il narratore, di fronte allo scorrere di immagini indimenticabili, legge il testo sacro degli indios guatemaltechi, che narra come ai primordi "il mondo fosse sospeso nel nulla, silenzioso, vagabondando negli spazi infiniti, senza uomini o altra forma di vita, con la sola presenza del cielo, e la faccia della terra non era visibile; sotto l'arco del firmamento si stendeva immobile il mare, in una quiete assoluta, in una notte perenne".
Negli abissi dell'acqua dimorava la sapienza, erano presenti il Dio l'onnipotente e la Dea kuccumatz, il maschile e il femminile, i quali idearono la creazione della luce e dell'uomo, e con le loro tre saette denominate guizzo di luce, piccolo lampo, e saetta verde crearono il mondo, con terra, luce, vita; ma la creazione era imperfetta, gli animali non sapevano pronunciare il nome dei creatori, l'onnipotente e kuccumatz decidono allora di riprovare a creare, cercando di dar vita a un essere dalle sembianze umane, più responsabile, custode anche della creazione.
Ma anche i nuovi esseri, privi dell'intelletto e della parola, erano imperfetti, e furono annegati. La terra si oscurò, cadde una pioggia insistente, un diluvio che distrusse gli esseri dalle sembianze umane.
La seconda parte intitolata Il paradiso mostra le devastazioni paesaggistiche subite dal deserto sahariano, dove pullulano miseramente i resti e i rifiuti industriali delle losche attività affaristiche occidentali, grossi camion abbandonati in lenta decomposizione, montagne di tubi da ogni parte per l'interramento di nuovi oleodotti, villaggi sparsi a macchia di leopardo costruiti con orrendi prefabbricati di ferro, a forma di parallelepipedi che fanno da alloggi di fortuna alle famiglie di lavoratori occidentali impegnati nella costruzione degli oleodotti, innumerevoli carogne di animali uccisi dal fuoco di incidenti petroliferi alcune di essi sorpresi in vita con il loro piccolo accanto, lagune di petrolio, automobili arrugginite abbandonate.
Il narratore legge alcuni passi del testo sacro, che parlano di un paesaggio senza significato, osservato solo dall'onnipotente, di abitanti che camminano attraverso il deserto e le abitazioni senza vedere mai il proprio volto, delle persone misteriosamente prive della loro ombra, del mito di un Peter Pan infelice, delle porte delle case felicemente aperte a tutti, di animali che come il varano e le pecore merinos riescono incredibilmente a sopravvivere al caldo di 60 gradi e alla fame, di lavori che non si fanno da altre parti come scavare caverne senza incontrare mai esseri umani, o attraversare i portali di case inesistenti, di piccioni arrosto volanti che si dirigono direttamente in bocca degli uomini per essere mangiati, della lettera dei familiari di un lavoratore tedesco di nome Eugenio che chiedono all'uomo rassicurazioni circa il suo ritorno in patria, di persone che salutano anche se non vedono nessuno, di uomini che nascono già morti, di abitanti che litigano con gli stranieri per non farseli amici.
Nella terza parte, L'età dell'oro, tra l'uomo e la donna c'è finalmente piena armonia, ed essi hanno la morte negli occhi, il sorriso sulle labbra, le mani protese verso la vita.
Ne L'età dell'oro ci sono tracce della vita dello stato precedente.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 18/05/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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