Recensione grizzly man regia di Werner Herzog USA 2005
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Recensione grizzly man (2005)

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locandina del film GRIZZLY MAN

Immagine tratta dal film GRIZZLY MAN

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Immagine tratta dal film GRIZZLY MAN
 

"Volevo il movimento, non un'esistenza quieta. Volevo l'emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore. Avvertivo dentro di me una sovrabbondanza di energia che non trovava sfogo in una vita tranquilla."
Lev Tolstoj, La felicità familiare.

"La natura selvaggia attirava chi fosse annoiato o disgustato dall'uomo e dalla sua opera. Non soltanto costituiva una possibilità di fuga dalla società ma anche il palcoscenico ideale sul quale esercitare il culto che l'individuo romantico spesso faceva della propria anima. La solitudine e la totale libertà di una terra selvaggia creavano l'ambientazione ideale per la malinconia o l'esaltazione".
Roderick Nash, Wilderness and the American Mind.

Da sempre alle prese con le folle e sognanti ossessioni dell'uomo, Herzog sceglie di ricordare Timothy Treadwell, un attivista ambientalista che scelse di vivere per tredici estati a stretto contatto con gli orsi in Alaska per proteggerli dal bracconaggio, dalla natura e dall'uomo, e dove morì con la propria ragazza attaccato proprio dai grizzly.

Grizzly Man non è un film e non è un documento; è un film e un documento.
Herzog indaga soprattutto su ciò che si cela dietro e dentro la personale ossessione di Timothy Treadwell, dietro e dentro l'uomo che esorcizza i propri demoni, un uomo alle prese con un ideale più grande di se stesso e dei confini umani ma necessario alla sua vita ed al suo posto nel mondo quale essere umano, al suo considerarsi uomo in quanto tale.
Un rifiuto deciso ed impietoso della civiltà in nome di un sogno impossibile e di una vita solo così possibile. Un uomo che rifiuta la civilizzazione, la civiltà crudele in cui non si sente uomo bensì animale civile e l'accettazione di un mondo dove gli equilibri sono noti ed incorruttibili, dove la propria esistenza - dapprima segnata da alcool, droghe e sbalzi d'umore - acquista un senso, dove può e crede di superare anche la morte, ed in un certo senso la soverchia.
Una storia d'amore travagliata ed incondizionata, un percorso interiore tracciato dalle immagini accuratamente scelte da Herzog di eterea simbiosi che supera qualsiasi limite della ragione. Timothy oltrepassa maniacalmente e continuamente i confini fra la coscienza del pericolo e la salvaguardia della ragione e alla fine rifiuta il suo essere uomo per diventare orso, parte di quel mondo che è stato in grado di donargli una nuova vita - "io non avevo una vita, ora ce l'ho" - una vita finalmente non "mediata" nè artificiosa, felice, visionaria, irrazionale, un sogno finito in tragedia ed allo stesso modo il coronamento di un'esistenza che non c'era ed è stata ritrovata, a suo modo, per sempre. "Questa è la mia vita, questa è la mia terra".

Herzog guida questo percorso utilizzando in gran parte il girato di Treadwell ed aggiungendo interviste, testimonianze e alcune sequenze intense e bellissime. Ma non si limita ad essere spettatore e selezionatore, montatore e creatore, entra lui stesso in questa testimonianza "al limite" e oltre, in questo eccezionale ritratto, con la propria voce, con la propria presenza e con la propria commozione: da brividi la sequenza in cui ascolta il sonoro dell'ultimo ciak di una fine vera.
Herzog rifiuta la visione romantica in cui è immerso profondamente Timothy Treadwell, quasi un neo Thoreau, a favore di una concezione meccanicistica di pura sopravvivenza crudele, cieca e necessaria. Qui Herzog genialmente e straordinariamente infrange i limiti del cinema per approdare al reale che lo trascende.
Un documento straordinario dove le lacrime di Timothy e di Herzog sono anche le nostre, Oltre la finzione, Oltre il cinema, Oltre la natura per raggiungere direttamente l'Uomo.

"Desideravo acquisire la semplicità, i sentimenti puri e le virtù della vita selvaggia, spogliarmi delle abitudini artificiali, dei pregiudizi e delle imperfezioni del mondo civilizzato; [...] e trovare, nella solitudine e nella grandiosità del selvaggio Ovest, vedute più corrette della natura umana e dei veri interessi dell'uomo."
Estwick Evans, A pedestrious tour, of four thousand miles, the western states and territories, during the winter and spring of 1818.

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Recensione a cura di williamdollace - aggiornata al 01/10/2007

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