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Chi ha cercato la propria cognizione del mondo e della vita nell'arte, spesso sarà incappato in faticose ricerche senza conclusione, implicandosi talvolta in cunicoli che, invece di riportare alla luce, gettavano altro buio e nuova profondità al proprio percorso personale. Magari s'allietava d'essersi perduto. Rimaneva giorni e giorni a ragionare sui cavilli stilistici che la poesia contemporanea gli proponeva e che, invero, occultavano il nocciolo che andava ricercando; e che a momenti del tutto poteva essere scordato.
Ci si ferma così a sbucciare la scorza spinosa di quei frutti dolci/amari; ma prima di arrivare a quel nocciolo luminoso, ecco che esso s'è già spento; oppure esausti ci abbiamo noi stessi rinunciato.
Di che sostanza era fatto quel nucleo? Era poi davvero tanto importante arrivarci? Non era sufficiente averne gustato pienamente la polpa?
Un giorno, nell'intenzione di trascorrere un'oretta di puro relax, e preparandosi alla vista d'un film d'animazione d'un autore pressoché sconosciuto, può accadere però che una luce abbagliante d'improvviso ci sorprenda, quando meno s'aspettava d'incontrarla; e di ritrovare in quei pochi minuti immensi ciò che certa poesia aveva in noi dissipato: la Poesia; quel nocciolo che s'era perduto e altrove a lungo ricercato.
Ed è a quel punto che ci si accorge di trovarsi dinnanzi ad una delle opere più semplici e più complesse a cui si abbia mai assistito, forse visivamente parlando la più bella, e che si è scelto d'introdurre con questa che più che una prefazione, vuole essere una sorta di nota del traduttore, dove la seguente traduzione, se tale si può definire, sarà solamente suggerita, poiché l'idioma originale dell'opera lo conosciamo bene tutti: è quello dei sogni, della malinconia, dell'infanzia, della memoria.
Partiamo col precisare che "Il racconto dei racconti" non è un comune film di animazione. È, piuttosto, un breve componimento poetico rapito alla propria infanzia. Un analogico (e tutto novecentesco) susseguirsi d'immagini, corrispondenze, simboli, reminescenze, suggestioni, e di raffinatissimi disegni dai diversi stili e dalle varie tecniche di découpage, adagiati sopra la delicatezza delle musiche di Bach e di Mozart, e tenuti insieme tra loro da un filo sottile di nostalgica memoria. È lo stupore, dolcissimo, d'un lupacchiotto (alter ego della fanciullezza rievocata?) che assiste attraverso i suoi occhioni la meraviglia e il mistero della vita sbocciare man mano.
Pare che il titolo inizialmente deciso dall'autore fosse "Il piccolo lupo grigio arriverà", ovvero riprendesse la ninnananna che in principio all'opera una mamma canta al proprio bambino; e solo in seguito fu mutato nel superlativo ebraico del titolo definitivo (come "Il Cantico dei Cantici", e il russo Norstein era di famiglia ebrea); che potrebbe anche essere tradotto come: Il più bello di tutti i racconti: la vita.
La vita. Una madre che allatta il proprio figliolo; e il lupacchiotto che spia meravigliato la prima scena, bellissima. Poi, una mela illuminata sotto la pioggia (la piccola innocenza pianta dal mondo?); e una luce immane uscire da una porta - la memoria - un toro che gioca a saltare la corda con una bambina e si distrae; una famigliola in mezzo alla campagna; e un poeta che cerca la sua illuminazione.
Proprio quello della mancanza d'ispirazione (forse dello stesso Norstein), tornando alla genesi dell'opera, sembra dovesse essere in principio l'argomento principale dell'opera. Come spesso è accaduto in arte però, poca vena ispiratrice si trasforma essa stessa magicamente in musa, e la cetra di Norstein ricomincia a suonare da sola.
Tutto si fa più cupo. Arriva la guerra. Il treno è quello che porta via per sempre. Le automobili fuggono. Le finestre si barricano. Il lupetto rimane solo, in autunno, nella desolazione dei luoghi evacuati. Poi ecco una delle immagini più tristi e struggenti: un romantico tango di sposi; via via i mariti vengono rapiti dalla guerra (Norstein nacque nel 1941, è la seconda guerra mondiale); divengono spettri-soldati che attraversano lo scenario delle mogli-statuine, sotto la nevicata, per il fronte, verso il buio. Ove il timbro si fa sempre più tragico: i treni portano lettere alle donne, un lampione espressionista illumina in maniera concitata alcuni nomi; finché il tutto si lenisce tristemente, nella nota d'una foglia che s'addormenta sopra una superficie d'acqua buia, sotto la cui affiora la figura di un grande pesce, dal sapore vagamente orientale, uno dei simboli più oscuri e tetri dell'opera.
Inverno. Un tipico paesaggio sovietico d'alberi innevati. Un bimbo mangia una mela assieme a dei corvi, mentre i genitori si riposano sopra una panchina. La mela cade, i tre spariscono dietro la neve. Riviene autunno (è dunque assente ogni tipo di logica temporale). Il lupacchiotto è ora un piccolo e solitario mangiatore di patate, in una scena di un'umiltà infinita. Intanto la guerra è terminata, solo alcuni mariti ricompariranno a danzare con le proprie mogli. E si va a ritroso. Si entra nuovamente in quella luce rammentata; lungo la campagna appena stilizzata, un uomo s'incammina su un sentiero, mentre il lupacchiotto osserva in una natura morta quella pagina bianca (ritorna il tema della mancanza d'ispirazione) che invece di trovarsi spenta perché inviolata dall'inchiostro delle parole, risulta essere la vera fonte dell'immane bagliore. Sotto al tavolo la madre che allatta il suo bambino, mentre le labbra del lupacchiotto sembrano ora mimare quelle del neonato che succhia dalla mammella. Poi, preso da un'ingenua curiosità, decide di rubare la pagina del poeta, ma comprende presto d'aver compiuto un'imprudenza: il foglio arrotolato s'è mutato in un infante in fasce: piange, tocca al lupacchiotto cullarlo e cantare la ninnananna del piccolo lupo grigio.
Le mele cadono silenziose tra i rami innevati. Il toro resta solo a saltare la corda. E rimane il tempo d'un anelito di vapore del treno che passa sotto ad un ponte...
Quanta bellezza. E ci si accorge d'avere seguito il film trattenendo il respiro, quasi col timore che un fiato troppo ostentato avrebbe potuto turbarne la leggerezza, alterare la forma dei riflessi specchiati sulle tele acquatiche, in quelle pozzanghere di luce tersa velate di lirica e di puerile malinconica.
Probabilmente ognuna di quelle immagini avrebbe meritato una sua recensione a sé stante. Per analizzarne le pregnanti simbologie bisognerebbe, invero, sviscerare la biografia dell'autore, risalire alle differenti fonti pittoriche (impossibile, per esempio, non pensare subito a Chagall), studiarne ogni passaggio analogico; ma ciò, a mio avviso, non farebbe che impoverirne i contenuti prettamente evocativi, e rischierebbe di aggiungere una valanga di annotazioni scorrette e davvero poco opportune.
Ci accontentiamo d'avere sfogliato appena queste pagine di poesia, e d'averle commentate così, sottovoce, rispettandone la preziosa intimità (d'altronde si ha bene in mente la confessione dello stesso Norstein, che dichiarò che prima veniva l'immagine, e solo dopo vi scopriva dentro una metafora).
La memoria (e il Novecento artistico e storico ne è pregno) - come abbiamo potuto dimenticarlo - è nient'altro che la vita. La cognizione stessa dell'esistere, ove il percorso reale non è quello verso il futuro, come tendiamo spesso ad interpretarlo, scorre in verità nel senso opposto, in coda al passato.
Memoria, bellezza, era questo il nocciolo? La risposta è davvero tanto limpida e semplice?
In verità, non è proprio così semplice. Prima bisogna essere disposti ad ascoltare: e ascoltare molta bellezza e molta memoria, prima di poterle comprendere.
Norstein, nel suo "Racconto dei Racconti", dimostra d'averlo fatto; in quella che è la sublimazione d'una memoria non solo d'un uomo, non solo d'una nazione, ma di tutti coloro che ovunque si trovino, ovunque abbiano vissuto, posseggano l'alta pazienza di sapere ascoltare, e sappiano intendere "il linguaggio dei fiori e delle cose mute".
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 29/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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