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"La classe operaia va in paradiso" è un film di Elio Petri uscito nel 1971. Fu vincitore del Grand Prix per il miglior film al Festival di Cannes del 1972. La coppia protagonista è costituita da Gian Maria Volontè e Mariangela Melato, Menzione Speciale a Cannes per il primo e Nastro d'Argento per la seconda.
Al momento dell'uscita nelle sale il film suscitò aspre polemiche nell'ambiente cinematografico e intellettuale, gran parte delle critiche vennero da sinistra. Il regista Jean-Marie Straub, per esempio, dichiarò pubblicamente che tutte le copie del film avrebbero dovuto essere immediatamente bruciate.
Ludovico Massa, detto Lulù, è un uomo di 31 anni ma ne dimostra molti di più, ha due famiglie e fa l'operaio già da 15 anni. Il lavoro gli ha procurato due intossicazioni da vernice e un'ulcera. È uno stakanovista e un sostenitore del lavoro a cottimo che gli consente di permettersi una vita discreta. Lulù è un modello per la direzione, viene utilizzato come metro di paragone per stabilire i tempi di tutti i suoi colleghi. La sua vita sociale però è pressoché nulla e i rapporti con entrambe le famiglie sono molto freddi.
Da questa alienazione totale Lulù alza la testa quando, un giorno, in seguito ad un incidente sul lavoro, perde un dito. Ha una sorta di illuminazione che lo porta a considerare la sua posizione di sfruttato, si schiera contro il ricatto del lavoro a cottimo e abbraccia le estremistiche rivendicazioni di certi studenti e di alcuni operai della fabbrica in contrapposizione alle posizioni più moderate dei sindacati. Questa svolta costa a Lulù il posto di lavoro, inoltre viene anche lasciato dalla compagna che non apprezza il suo aver abbracciato un'ideologia di sinistra. Lulù rischia così di impazzire come Militina, un ex compagno di fabbrica che talvolta va a trovare in manicomio. Dopo un periodo cupo la compagna torna a vivere con Lulù che lentamente sembra ristabilirsi. Una notte gli viene comunicato da dei suoi compagni che, grazie al sindacato, si è ottenuta la sua reintroduzione in fabbrica. Il finale lo vede ad una rumorosissima catena di montaggio, intento a raccontare ai compagni di un sogno in cui tutti gli operai sfondavano un muro ed entravano in paradiso.
Nel 1936 Charlie Chaplin, col suo capolavoro "Tempi Moderni", mostrò in maniera eccezionale i danni causati dalla catena di montaggio, il sistema di lavoro ideato da Frederick Winslow Taylor e sviluppato ancor di più da Henry Ford.
Nel film, il povero Charlot è un operaio meccanico su una linea di produzione, i pezzi passano velocissimi e, a discrezione del padrone, il ritmo viene costantemente aumentato. Questo ritmo di lavoro folle crea un esaurimento nervoso al povero Charlot che, anche uscito dalla fabbrica, continua a ripetere gli stessi gesti ripetitivi che svolge in fabbrica, questo dà vita a delle gag tragicomiche. Famosissima è la sequenza con Chaplin che scivola all'interno di una macchina e passa tra gli ingranaggi, è lui stesso un ingranaggio della produzione capitalista.
Anche Lulù all'inizio del film paragona un uomo ad una fabbrica. "La classe operaia va in paradiso" è un film che ritrae gli anni '70. Al fordismo si sta lentamente sostituendo il toyotismo di Taiichi Ohno con la sua ossessione per i "tempi morti", questi debbono essere minimizzati per poter massimizzare il profitto. La salute psicofisica dei lavoratori diviene così una variabile secondaria se non trascurabile. Nella fabbrica di Lulù c'è un addetto alla misurazione dei tempi, chi non raggiunge un certo standard viene multato.
L'alienazione del lavoratore è un tema centrale. Nell'età feudale il lavoratore era unito ai mezzi di produzione ma alienato dagli altri lavoratori. Con l'avvento del capitalismo il lavoratore si trova unito agli altri lavoratori ma alienato dai mezzi di produzione. Nel mondo consumistico contemporaneo, il lavoratore pare alienato da tutto, anche da sé stesso.
"Non si sfugge dalla macchina" diceva il filosofo francese Gilles Deleuze. Quando il lavoratore finisce il suo turno, la macchina continua il suo montaggio e questo si risente nella vita quotidiana, in famiglia, in tutti i rapporti umani e in tutte le attività di pensiero, è un'oppressione totale. Come scrisse Louis-Ferdinand Céline in "Viaggio al termine della notte" a proposito della sua esperienza di lavoro in una fabbrica Ford a Detroit: "Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l'inebetimento e il delirio. Importava soltanto la continuità fracassona di mille e mille strumenti che comandavano gli uomini. Quando alle sei tutto si ferma ti porti il rumore nella testa, ne avevo ancora per la notte intera di rumore e odore d'olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre. Allora a forza di rinunciare, poco a poco, sono diventato quasi un altro (...) quelli dell'officina di sicuro, erano solo degli echi e degli odori di macchine come me, carni vibrate all'infinito, i miei compagni."
Nel film si accenna al lavoro come ricatto sociale, idea oggi quasi sparita, il lavoro in sé non è più oggetto di discussione, il fatto che per "quattro lire vigliacche", come dice Lulù, si rubi la vita alla gente pare assolutamente normale. Non è sempre stata questa l'idea del lavoro.
Scrive il Gruppo Krisis in "Manifesto contro il lavoro": "Fino a pochi secoli fa, gli uomini erano del tutto consapevoli del rapporto fra lavoro e costrizione sociale. Nella maggior parte delle lingue europee il concetto di "lavoro" si riferisce originariamente soltanto all’attività di un essere umano dipendente, del sottoposto, del servo o dello schiavo. Il verbo italiano "lavorare" viene da "laborare", che in latino significava "vacillare sotto un peso gravoso", e indicava in generale la sofferenza e la fatica dello schiavo (...). Le parole romaniche "travail", "trabajo" derivano dal latino "tripalium", una specie di giogo che fu inventato per torturare e punire gli schiavi ed altre persone non libere."
E ancora, gli stessi autori, dopo aver definito il lavoro un "principio costrittivo sociale", sottolineano: "Nella sfera del lavoro non conta che cosa si fa, ma che si faccia qualcosa, dal momento che il lavoro è un fine in sé, proprio perché realizza la valorizzazione del capitale – l’infinita moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso. Il lavoro è la forma di attività di questa assurda tautologia."
Una società in cui l'uomo è messo da parte e il capitale è il fine, non può che essere una società grigia. La vita di Lulù è squallida, la sera è talmente sfinito che non può far altro che starsene davanti al televisore, non riesce nemmeno più a fare l'amore con la sua compagna. Sembra quasi che solo la fabbrica gli dia una sorta di eccitamento sessuale. Dice più volte che mentre lavora si concentra e pensa solo al sedere di una collega. Un giorno Lulù porta questa collega in una fabbrica abbandonata (sembra che esistano solo fabbriche) e consuma con lei un fugace rapporto sessuale in una piccola auto che dà allo spettatore un senso di scomodo, quasi di claustrofobia. Pare che la meccanicità degli atti lavorativi si sposti in quelli amorosi. Non c'è passione, non c'è sentimento, solo un freddo e rapido gesto meccanico.
Ma la critica di Petri sembra non fermarsi alla fabbrica, accenna ad altro. Quando Lulù va a prendere a scuola il figlio della compagna, gli dice per ben due volte: "Mi sembrate operai piccoli".
Il sistema fabbrica si espande, entra anche nelle scuole a imporre il suo modello. Il principale ruolo istituzionale della scuola è di fornire un servizio ideologico, incoraggiando obbedienza e conformismo.
La compagna di Lulù fa la parrucchiera in un negozio. Nonostante sia anche lei una proletaria, non abbraccia le idee comuniste di Lulù e dei compagni che porta a casa. Questi le rimproverano di essere una sfruttata che si è formata sulla base dei modelli culturali imposti dai media. Il proletario vive da povero imitando però il suo sfruttatore. Emerge così la mutazione antropologica che proprio in quegli anni, come lucidamente riscontrava Pasolini, ha completamente cambiato gli italiani, li ha trasformati da proletari a potenziali piccoli borghesi. La moglie di Lulù infatti, vuole un visone e ritaglia immagini di Agnelli. Il padrone non è quindi un nemico anzi, è grazie a lui che ci si può permettere una vita decente, è un modello da seguire. Non c'è più lotta di classe e nemmeno coscienza di classe, proprio perché decade il concetto stesso di classe.
Gli studenti che appaiono nel film sembrano essere proprio una caricatura dei giovani sessantottini tanto odiati da Pasolini. Studentelli nullafacenti e figli di papà che, non avendo nulla da fare e da perdere, fanno da agitatori fuori dai cancelli delle fabbriche. I lavoratori però da perdere ne hanno: le giornate di sciopero non sono pagate e si può perdere il posto, cosa che puntualmente accade al protagonista. E quando Lulù si trova disoccupato, i cosiddetti compagni, che si ponevano più a sinistra della sinistra, gli voltano le spalle e lo invitano a vivacchiare di espedienti come loro.
I sindacati d'altro canto vengono rappresentati come una forza pacificatrice tra i lavoratori e il padronato, una sorta di cuscinetto che evita a tutti i costi lo scontro frontale. Si è all'inizio del progressivo depotenziamento del potere sindacale. Il sindacato però, a differenza degli studenti e degli intellettualini di estrema sinistra, riesce a far riavere il posto a Lulù.
Petri porta lo spettatore dentro la fabbrica e lo fa con sguardo appassionato, non in modo freddo e distaccato come il documentaristico "Humain trop humain" di Louis Malle.
In definitiva il film di Petri è un grande affresco di uno spaccato di storia recente. Rivisto oggi ripropone dei problemi ancora attualissimi, benché posti ingiustamente in secondo piano. Riscoprire questo cinema di impegno civile, genere che col duo Petri-Volontè tocca delle vette mai più raggiunte, è oggi d'obbligo per chi si ritenga un soggetto socialmente impegnato.
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Recensione a cura di Compagneros - aggiornata al 05/03/2013 15.35.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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