Recensione ladri di biciclette regia di Vittorio De Sica Italia 1948
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Recensione ladri di biciclette (1948)

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Premio onorario al miglior film straniero
VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR:
Premio onorario al miglior film straniero
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locandina del film LADRI DI BICICLETTE

Immagine tratta dal film LADRI DI BICICLETTE

Immagine tratta dal film LADRI DI BICICLETTE

Immagine tratta dal film LADRI DI BICICLETTE

Immagine tratta dal film LADRI DI BICICLETTE

Immagine tratta dal film LADRI DI BICICLETTE
 

Vittorio De Sica muove i primi passi nel mondo della cinematografia già nel 1917, quando a soli sedici anni ricopre il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film "Il processo Clemenceau", di Alfredo De Antonini, passato al professionismo teatrale nella compagnia Almirante- Rifone-Tofano e deviando successivamente verso il teatro popolare inizia ad intraprendere la carriera di attore cinematografico nel 1932 con il film di Camerini "Gli uomini che mascalzoni" dove, cantando la famosa "Parlami d'amore Mariù" di C.A. Bixio, mette in mostra anche una sorprendente versatilità.

I traguardi raggiunti con i suoi film non sono però sufficienti a soddisfare chi in quel periodo è definito lo "Chevalier italiano"; De Sica è sul punto di tornare definitivamente a fare teatro quando gli si aprono inaspettatamente le porte della regia cinematografica. Il suo orientamento si basa palesemente sull'osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale.
È con la collaborazione dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini che De Sica, soprattutto con i suoi due film più rappresentativi, "Sciuscià" e "Ladri di biciclette", contribuisce in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica: il neorealismo.

Sviluppatosi in Italia tra il 1945 e il 1956, il neorealismo fu contraddistinto da un nuovo atteggiamento verso la realtà, da una presa di coscienza dei problemi collettivi dell'epoca, dal significato direttamente sociale della loro rappresentazione. Nella sostanza l'estetica neorealista fu caratterizzata da un'intensa pluralità di poetiche individuali fortemente antifasciste, all'interno delle quali non mancarono alcuni luoghi comuni specificatamente cinematografici: la scelta prevalente di ambienti naturali; i personaggi e gli eventi collocati in un contesto di quotidianità; la scelta di un parlato semplice, dialettale; il rifiuto del doppiaggio.

"Ladri di biciclette" vede la luce nel 1948, affiancandosi ad altri due capolavori del neorealismo italiano: "Roma città aperta" di Roberto Rossellini e "La terra trema" di Luchino Visconti; nonostante nella sceneggiatura si affollino diversi nomi, il lavoro fu svolto prevalentemente da Cesare Zavattini, figura importante nella vita lavorativa di Vittorio De Sica, con il quale formò uno dei sodalizi più produttivi della storia del cinema.
La scelta, nell'immediato dopoguerra, di diventare regista si dimostrò sicuramente audace, in quanto in quel periodo De Sica godeva di una popolarità non indifferente sia per merito delle tante commedie interpretate che per le sue celebri canzoni; prevalse, per il neoregista, l'esigenza di raccontare il Paese come era in quel momento, di descrivere la drammatica povertà nella quale versavano la maggior parte degli italiani, di ritrarre, nel modo più realistico possibile, la condizione umana alle prese con le difficoltà estreme, con l'indigenza.

È la Roma postbellica ad accogliere il protagonista della pellicola: Antonio Ricci è immerso in una realtà comune a moltissimi altri suoi coetanei nella capitale del dopoguerra, è disoccupato ed ha una famiglia da sfamare; quando finalmente riesce a trovare un lavoro come attacchino scopre che per svolgerlo è necessario possedere una bicicletta, mezzo di locomozione indispensabile in quel periodo in quanto l'automobile era un lusso che potevano concedersi in pochi. Impegnando le lenzuola di casa riesce a riscattare la propria dal monte di pietà così da poter esaudire il suo sogno.
Purtroppo una condizione di povertà e di indigenza (dilagante in quel periodo) induce facilmente l'essere umano al furto, e nel suo primo giorno di lavoro il preziosissimo mezzo di trasporto gli viene rubato; inizia così il disperato percorso di Antonio per recuperare la bicicletta, fondamentale elemento narrativo intorno al quale ruota l'intera vicenda.

Attraverso la lunga camminata alla quale è costretto Antonio nel tentativo di recuperare il suo strumento di lavoro, il regista fa emergere uno spaccato ricchissimo della vita italiana del dopoguerra, un Paese che in quell'anno stava vivendo la nascita della democrazia cristiana ai danni del fronte popolare dopo le elezioni del 18 aprile; un Paese che stava affrontando il passaggio tra il triste periodo della guerra che in tutti i modi voleva lasciarsi alle spalle e i segnali di una rinascita che stava per arrivare. La tragicità del personaggio è enfatizzata proprio dalla sua incapacità di far parte di quel miracolo italiano che sta prendendo forma; l'infruttuosa ricerca fa cadere Antonio nella disperazione e fa conoscere a noi spettatori il destino degli umili.
L'uomo cerca con ogni mezzo di ristabilire gli equilibri spezzati dal ladro, ed insieme al piccolo figlio Bruno lo cerca nei mercati romani di Piazza Vittorio e di Porta Portese, attraverso una veggente devota alla moglie, per le strade dei quartieri più poveri; individuato finalmente il responsabile del furto cerca di denunciarlo alla polizia ma, tra la gente del quartiere, incontrerà un muro invalicabile di omertà e ostilità che, insieme all'abiezione in cui versa il ladro e la sua famiglia, lo indurrà a rinunciare.
È qui che Antonio incrina la sua condizione di uomo onesto e solido, esempio per il piccolo Bruno, e compiendo il gesto di cui lui stesso è stato vittima si rende, agli occhi della folla che lo ha scoperto e soprattutto a quelli del figlio, umiliato e offeso.

Va notato come nel film traspaia una chiara ideologia antiborghese, sottolineando in più occasioni l'esistenza di un forte conflitto di classe; la cosa è resa palese quando Antonio Ricci, appena dopo aver subito il furto, si reca a denunciarlo al commissariato: la polizia è impegnata a mandare i suoi uomini a presidiare un comizio del partito comunista e rimane indifferente alle richieste dell'uomo; aiuto che giunge invece dal partito che, al contrario, si rende disponibile alla ricerca. Il popolo che versa in miseria non trova appoggio nelle istituzioni, troppo concentrate ad asservire e proteggere la piccola borghesia; la mano tesa arriva dagli ambienti legati alla sinistra.
La critica verso la borghesia appare ancora più marcata nell'episodio della trattoria, in cui il distacco sociale è evidenziato dal contrasto tra il tavolo dove stanno consumando il loro modesto pasto Antonio ed il figlio Bruno e la sfarzosa tavolata di ricconi al loro fianco, con un antipatico ragazzino tirato a lucido che guarda sprezzante il "proletario" Bruno.
Non deve quindi meravigliare se la nascente democrazia cristiana cercò di ostacolare l'uscita del film: alla "simpatia" che il regista sembra riservare ai personaggi che gravitano intorno agli ambienti del PCI (alcune scene sono girate all'interno di una loro sezione) si aggiunge l'aperto anticlericarismo mostrato nell'episodio della mensa dei poveri, in cui l'ipocrisia cattolica traspare palesemente mostrando un gruppo di borghesi bigotti disposti a sbarbare e nutrire i bisognosi soltanto dopo averli costretti ad ascoltare la messa, i rosari e le prediche.

Se, fino a quel momento, il regime fascista aveva esaltato la figura patriarcale all'interno della famiglia, in "Ladri di biciclette" si evidenzia un ribaltamento dei ruoli. Antonio sembra non sia in grado di affrontare le difficoltà della vita: se per riscattare la bicicletta al monte dei pegni è fondamentale il ruolo della moglie Maria, che con decisione impegna le lenzuola di casa per rimediare i soldi, durante tutto il pellegrinare dell'uomo per le strade di Roma ad essere fondamentale è la figura del piccolo Bruno; è lui a trasmettere sicurezza, è lui che in più di un'occasione sostituisce un padre immaturo, completamente incapace di gestire il dramma che sta vivendo. È emblematica in tal senso la scena finale all'uscita dello stadio: il gesto di Antonio in preda allo scoramento causato dall'impossibilità di controllare il proprio istinto (bellissima la scena in cui guarda a più riprese l'invitante bicicletta parcheggiata incustodita) è un gesto adolescenziale; Antonio ha lo stesso impulso che avrebbe un bambino al quale viene sottratto un giocattolo e cede alla tentazione di rubarlo a sua volta in un negozio. Se però in questo caso a perdonare e a consolare l'autore di un simile gesto ci sarebbe un padre, a perdonare e a consolare il gesto di Antonio c'è un figlio.

L'Italia usciva quindi da vent'anni di dittatura fascista in cui in ambito cinematografico la realtà era stata, se non proprio cambiata, perlomeno edulcorata; molti registi erano stati costretti a reprimere qualsiasi desiderio di innovazione ed esprimersi con un linguaggio realistico era quanto meno difficile se non impossibile.
A rappresentare in modo autentico i drammi della povera gente iniziarono a farlo registi del calibro di Roberto Rossellini, Luchino Visconti e appunto Vittorio De Sica; l'aspetto quasi documentaristico delle loro opere, la scelta di far recitare attori non professionisti, di far vedere la cose così come realmente erano, portò una ventata di grande innovazione nel cinema. L'entusiasmo che accompagnò il movimento neorealista fu qualcosa di assolutamente unico, anche per questo "Ladri di biciclette" va considerato una pietra miliare della storia del cinema.

Se l'idea di fondo può risultare quasi imbarazzante nella sua banalità (l'esagerato sconforto di Antonio è in parte ingiustificato, le immagini di Piazza Vittorio e Porta Portese ci mostrano chiaramente un mercato florido e facilmente accessibile, le biciclette usate in vendita sono centinaia; trovarne una a poco prezzo non sarebbe dovuto essere così difficile, dato che con la garanzia del lavoro si sarebbe potuto ottenere facilmente un prestito), è proprio su questo paradosso che De Sica costruisce il suo capolavoro.
Il regista riesce a conquistare il pubblico con una storia esile ma filmando con estrema accortezza la condizione umana e sociale che circonda il protagonista, senza messa in scena, tutto appare reale, la presenza di attori non professionisti e la quasi totale assenza di salti temporali ne rafforzano la percezione.

Nonostante la condizione di estrema povertà in cui versava la popolazione italiana del dopoguerra, la Roma che appare davanti agli occhi dello spettatore ha un fascino che ormai non c'è più; seguire i due protagonisti lungo i rioni, le piazze, le strade della città è un'occasione per fare un confronto con la Roma "povera" degli anni '50 e la Roma "ricca" di oggi, beh, nessuna esitazione: quanto era più bella prima!

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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 22/01/2009

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