Voto Visitatori: | 8,38 / 10 (29 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,50 / 10 | ||
Titoli di testa: al twist cantato da Mina sopravviene una musica estraniante, asettica, d'avanguardia (entrambe di Giovanni Fusco). E subito l'immagine s'apre compenetrata nell'eclisse sonora, in un silenzio sensuale, enigmatico - com'è sensuale ed enigmatico il miglior cinema di Antonioni - che segue ad una domanda avvenuta in precedenza, non udita.
Due corpi in una stanza, un ventilatore, nessuna parola. L'incomunicabilità che s'interpone tra il pianeta donna e il suo astro.
Lei, Vittoria (ancora una volta Monica Vitti), si muove sinuosamente tra l'arredo e gli specchi. Lui siede, inerte, in attesa. E' la fine di una "avventura", cala nuovamente "la notte", i due corpi si sfiorano e s'allontanano automaticamente.
L'ottavo lungometraggio di Michelangelo Antonioni (ultimo della cosiddetta "trilogia esistenziale") si apre di nuovo sotto il segno del disamore.
Passano più di quattro minuti prima che il silenzio asfissiante sia rotto. Gli sguardi scivolano uno dall'altro. I discorsi deviano nel professionale. "Non lo so": è l'unica risposta accessibile.
Le tende s'aprono ad un paesaggio gelido, desolato (la fotografia, meravigliosa, è di Gianni Di Venanzo), di architetture rigide, di fronde impassibili. I due si calano sulla strada deserta, si rincorrono per qualche attimo, indolenti, si lasciano per sempre.
L'amore: l'incomunicabilità tra le persone s'è insinuata a tal punto da toccare la superficie di questo sentimento; trovarne una breccia, riempirne l'interno col suo nulla fatto d'incomprensione, d'indifferenza, d'apatia.
Non è più solo il rapporto con la folla esterna a venire a mancare, ma è l'intimità stessa della coppia a trovarsi coinvolta in un'inedia comunicativa che la smagrisce di quella passione e di quella intesa di cui dovrebbe alimentarsi.
Gli amanti appaiano manichini, eppure - quella di Antonioni è una poetica intellettuale ma profondamente sensibile - posseggono sguardi tristi, pensosi; hanno provato ad amarsi, a conoscersi, senza riuscirvi pienamente. Sono consci d'essere afflitti da questa malattia sociale che consuma i sentimenti.
Si passa dunque dall'inerzia di quell'addio fra un uomo e una donna, ad un nuovo deserto: quello della folla, nella borsa, luogo simbolo del dio-denaro. Ad un nuovo silenzio: quello del brusio, in una babilonia (dal punto stilistico sono eccezionali queste sequenze) di urla e gesticolazioni.
Vittoria vi passa disorientata, estranea, distaccata da tutto; vi incontra sua madre (neppure tra madre e figlia è residua una volontà di comprensione), immischiata in quell'ambiente cinico, frenetico, tumultuoso; vi incrocia quello che nel proseguo del film sarà il suo nuovo amore.
Il regista ferrarese esplora con grazia, la sua è una narrazione lenta, raffinata, che procede quasi sospesa tra la secchezza dei luoghi, attenta ad una sensibilità che è insita della complessità dell'universo femminile.
Vittoria vaga inquieta, assetata d'un senso indefinito di pienezza e di serenità, e il suo disinteresse nelle cose materiali si manifesta nel suo soffermarsi a contemplarle con ritrosia, senza il desiderio di conoscerle, ma accontentandosi di osservarle da fuori, d'invaghirsene estemporaneamente per poi abbandonarle.
Lo stesso accade con le persone: ella cerca di colmare momentaneamente la propria insofferenza con gli interessi altrui. Simula un'escursione nell'esotico con due amiche, in quell'Africa illustrata dai souvenir e dai dipinti, dentro un appartamento; improvvisa un ballo tribale; si ritrova immersa infine nell'atra vacuità notturna, nuovamente, nell'eclisse totale - in cui s'erge una statua come un marmoreo punto interrogativo - toccata dalla costellazione dei lampioni e sonorizzata dalla vibrazione di alcune aste metalliche.
Più ancora che nelle opere precedenti (pensiamo, per esempio, al paesaggio roccioso delle Eolie immerso nel Mediterraneo ne "L'avventura"), ne "L'eclisse" gli ambienti assumono aspetti assenti e metafisici, divengono siti non vissuti e dispersivi, inabitati, non imbevuti degli sguardi umani, specchi esteriori transitati appena dagli individui, ospiti spaesati di qualche momento, la cui vita non s'instaura né trova penetrazione nella loro frequentazione.
Le stanze, la borsa, i quartieri dell'EUR, la città vuota, gli oggetti, hanno tutti un ruolo comune nella storia: di dare forma visibile al grigiore esistenziale, di Vittoria e dell'uomo di oggi, affascinato dal nulla e confluito in un traffico d'azioni prive d'uno scopo vivificatore.
Resta dunque come ultima àncora l'affidarsi al caso, quel caso che in occasione d'una ingente somma di denaro persa dalla madre, permetterà a Vittoria di fare conoscenza di Piero (Delon), suo agente di borsa, soggetto dinamico, pratico, venale e opportunista.
Non è questo il tipo di uomo che saprebbe offrire quell'amore e quella serenità che va ricercando Vittoria. Lo sa, e ne è consapevole: ma è scoraggiata, e vi si affida senza resistenza, e stancamente si lascia trasportare dal caso.
Cede all'illusione di questo amore che possiede in verità l'arsura di un "Deserto rosso". Senza vita, senza passione, tedioso e asciutto come il paesaggio cittadino. I volti sorridenti s'assorgono, all'improvviso, in contemplazioni lontane, s'assentano profondandosi nel silenzio gli sguardi. Il gesto amoroso e il gesto indifferente si sovrappongono.
La possibilità che la storia sia alimentata dall'opportunismo (di donnaiolo da parte di lui, e per via del debito di cui la madre è oberata nei confronti di Piero da parte di lei) getta nuova polvere sulla continuazione del rapporto. Giusto il tempo di qualche incontro, e all'ultimo appuntamento nessuno dei due si presenterà.
Dopo la breve schiarita d'una penombra senza sollievo, fa dunque ritorno l'eclisse, pertinace, irrisolvibile.
L'alienante finale è pervaso d'un immenso fascino segreto: la vicenda di Vittoria e di Piero si stempera nel vuoto; i due scompaiono, vengono re-inquadrati i luoghi che hanno ospitato il loro amore fugace, ora attraversati da estranei senza nome (le strisce pedonali del bacio rifiutato, il parco, il bidone dell'acqua dove era stato lasciato cadere qualcosa).
Un collage di quartieri deserti, un'infermiera che spinge una carrozzina (simbolo della purezza e serenità smarrite?); e ancora: dure strutture, inquadrature inelastiche, squarci hopperiani; impalcature, fronde inerti, balconi spopolati; gente che aspetta, solitudine degli individui, isolamento dei luoghi... Sino a notte: lampioni s'accendono in silenzio... strade vagano in zone di mistero.
Commenta la recensione di L'ECLISSE sul forum
Condividi recensione su Facebook
Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 23/11/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
Ordine elenco: Data Media voti Commenti Alfabetico
in sala
archivio