Recensione l'infernale quinlan regia di Orson Welles USA 1958
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Recensione l'infernale quinlan (1958)

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locandina del film L'INFERNALE QUINLAN

Immagine tratta dal film L'INFERNALE QUINLAN

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Il titolo originale, Touch Of Evil, viene, secondo la svilente tradizione italiana del gran attore, tradotto ne L'infernale Quinlan che, tengo a precisare, non è propriamente l'interprete principale; infatti tutti i torbidi, grigi e indefiniti personaggi, che viscidamente si affrontano su questa vacillante pellicola, sono protagonisti: ognuno di loro viene personalmente lambito dal "Tocco del Malefico".
Questo film vanta diversi cameo tra i più importanti attori del tempo, che espressero fortemente il desiderio di recitare per -e- con Welles: star del calibro di Marlene Dietrich, Tza Tza Gabor, Janet Leigh, Charlton Heston, ... senza contare che fu proprio per quest'ultimo che i produttori, affidarono la realizzazione del film a Welles; Heston quando venne scritturato si rifiutò di recitare se a dirigerlo non ci fosse stato quel sommo genio creatore di Orson.

Lavorando sull'omicidio del più ricco petroliere della zona, Vargas novello sposo, giovane e statuario poliziotto modello mosso dall'alto ideale della giustizia assoluta che trascende l'umano, si trova ad affrontare Quinlan, solo,vecchio e deformato agente corrotto nello spirito e nel corpo, che non esita a piegare la legge al suo volere.
La trama è tra le più ovvie, una storia del genere noir hollywoodianamente standardizzata, ovviamente non ideata e tanto meno scelta dal prodigioso Welles, ma imposta da una Hollywood che costringeva a regole ferree le caratterizzazioni dei generi, e, il noir doveva essere facile: bianco su nero.
Lo spettatore doveva capire da subito chi era il virtuoso eroe senza macchia da ammirare e chi il ripugnante antieroe da disprezzare.
Ma a questo, decisamente troppo semplice filo di una trama in cui poco crediamo tutti noi, l'impossibile Welles non ci sta, pur sapendo che non può andare contro la schiacciante volontà di Hollywood che già lo detesta per aver minato definitivamente, 17 anni prima, le basi del proprio sistema cinematografico, con Quarto Potere, film che ha cambiato per sempre le sorti della settima arte, nonché attirato verso di lui l'ire funeste di tutti quei registi e produttori che si erano sempre chinati al compiacimento di un fare cinema per famiglie bigotte.
Se solo compie un passo falso (un altro), la minacciosa promessa è di tagliarlo fuori.
Così come un novello Ariosto inganna (per l'ennesima volta) il proprio padrone, lasciando una parvenza di patinato controllo: di fatto esternamente la trama rimane immutata, ma internamente fa implodere e scardina tutto il possibile, mettendo in scena il vero teatro della vita, quella degli uomini.
Acuisce il conflitto di mentalità che esplode tra i due poliziotti, dimenticando volutamente le connotazioni poliziesche dell'indagine sull'attentato.
Sarà il suo ultimo film americano.

I personaggi di questo film sono quanto di più cinematograficamente completo ci possa essere proprio perché umanamente indefiniti e paradossalmente contradditori.
Il superuomo Ramon Miguel "Mike" Vargas è interpretato da uno spocchiosamente convinto Heston con la faccia coperta di terra e sopracciglioni in modo da assumere le sembianze di un messicano- nazionalità che tutt'oggi nella credenza comune è emblema di poca fiducia- che, nonostante la propria origine natia, è un esemplare uomo di legge sposato con un altrettanto ammirevole mogliettina americana, la quale proprio per il comportamento troppo corretto del marito si troverà nelle peggiori situazioni in cui una brava donna americana del dopoguerra credeva non si sarebbe mai trovata (siamo nel '58, le scene di stupro, anche solo lasciate intuire e mai mostrate, erano uno scandalo), Forse Welles, contrariamente a quanto pensavano i romani Orazi, ci lascia intuire che la via più etica non è sempre quella da seguire. Altrimenti come spiegare il fatto che ogni volta in cui Vargas risponde al suo dovere lavorativo, abbandona al peggiore dei pericoli ciò che in teoria dovrebbe importagli più di tutto? Ossia il suo amore di moglie tanto perfetta quanto trascurata dall'unica cosa che sembra rincorrere per tutto il film: l'imperfetto marito. Forse non è Vargas l'eroe da apprezzare.

Il raccapricciante Hank Quinlan vive sul corpo di Welles come un poliziotto americano, quindi idealmente, il giusto per eccellenza, però è sgradevolmente grasso, ed oltre a zoppicare fastidiosamente è spregevolmente razzista: è il male nel suo patetico disorientamento. Nel corso della storia scopriremo che si rimpinza di cibo per colmare una carenza affettiva e non solo, che la gamba è indisposta dalla ferita di un proiettile riportata per salvare un grande amico, forse il solo, e che la sua intolleranza razziale nasce dalla morte della moglie per mano di un messicano; eppure messicana è anche la prostituta con cui cerca di sopperire a quel vuoto che è proprio di ogni individuo.
Queste sue imperfezioni caratteriali, emotive e così fortemente umane lo rendono forse una figura più facile in cui riconoscersi e per cui simpatizzare. Forse non è Quinlan l'antieroe da aborrire.

L'ingenuo Pete Menzies, fedele cane scodinzolante di Quinlan, suo dio, crede ciecamente alle non totalmente limpide capacità investigative dell'amico adorato: è forse il personaggio più valido.
Se noi arriviamo a pensare che forse Hank in fondo è un grand'uomo, è perché Menzies ce lo dice.
Eppure si trova comunque a dover decidere se chiudere un occhio sulla condotta dell'amico a cui deve la vita o ingiustificabilmente tradirlo in nome di un'inutile legge che non esiste.

Welles, senza nemmeno leggere il mediocre romanzo di Masterson, rielabora una sceneggiatura già scritta, fa vivere un conflitto drammaturgico ambiguo e geniale, che pare ideato da Shakespeare.
Come l'insuperato Michelangelo fece col suo David, Orson trae da materia maldestramente sbozzata un capolavoro.

Di questo film è quasi inutile analizzarne ogni singola parte; la spiegazione, perlomeno quella visiva, è chiaramente esplicitata in tutte le inquadrature che, se guardate con attenzione, rivelano ogni cosa tramite innumerevoli rimandi metaforici.
Uno dei più belli che ricordiamo si trova verso la fine, un'inquadratura breve ma tra le più incisive: in primo piano Quinlan, che sta per essere braccato, come il toro infilzato da punzoni in un quadro alle sue spalle, il poliziotto americano ha la tremenda potenza di un toro che lotta in una corrida.
Welles con l'espediente tecnico del piano sequenza in profondità di campo porta lo sviluppo per metafore, caratteristica propriamente teatrale, nel film: porta l'alta arte in un prodotto commerciale.
Porta il meraviglioso barocco nella sbalorditiva finzione tecnica cinematografica.
E chiaramente il barocco qui usato non è quello crocianamente inteso quale pomposo e vuoto compiacimento della propria grandezza eccessivamente decorata, ma quello della capacità di sfondare la percezione reale per portarla in una finzione ancora più grande, quella della mente umana, capace di creare metafore visive e concettuali che sfiorano quello che in assoluto potrebbe essere il divino: l'arte creativa.
Una delle metafore più evidenti di cui Welles abusa, per nostra intellettualisticamente cinefila gioia, è quella del confine, concetto base esplicato in ogni modo.
Come confine geografico: la storia si snoda a Los Roblos, cittadina di confine tra Stati Uniti e Messico, luogo di frontiera, terra dove finisce la terra di qualcuno e inizia quella di nessuno.
Come confine legale: poliziotti che servono la legge e altri che se ne servono per la loro giustizia, ove si affrontano due metodi d'indagine differenti, uno basato sull'ignifuga logica e un altro che nasce dal passionale istinto.
Come confine razziale: dove si mischiano colori e tradizioni da ogni luogo, dove addirittura Welles per forzare il contrasto trasforma la glacialmente nordica Marlene Dietrich, in una magnetica e marginalmente fondamentale sudamericana.
Come confine sessuale: Mercedes McCambridge (quella che nella versione americana doppiò la bambina posseduta ne L'esorcista) interpreta un individuo dalla dubbia definizione sessuale; e che dire dell'omofobico guardiano notturno, emblematico buffone shakespeariano impersonificato da un folle Tennis Weaver, personaggio che troverà la sua fortuna nell'edipico guardiano di motel nel rinomato Psycho (dove tra l'altro ritroviamo ancora la stessa Leigh... che pure l'immortale Hitchcock riconobbe ed omaggiò il genio?)

La maestria tecnica con cui è girato questo film è qualcosa di assolutamente impossibile, soprattutto considerando i notevoli limiti tecnici del periodo (rimaniamo sempre nel 1958), il linguaggio è estremamente attuale: movimenti di macchina, piani sequenza con la forma più geniale di montaggio -quello interno- per non parlare delle inquadrature fortemente scorciate dal basso con il loro senso di oppressiva imponenza nonché le manieristiche deformazioni grandangolari che ci schiaffeggiano con altre forti sensazioni. Welles anticipa di mezzo secolo il cinema odierno con evoluzioni visive eguagliate oggi dall'uso del computer. La precocità congenita del genio di cui Orson era, per nostra indescrivibile fortuna, affetto, è lampante nell'inebriante piano sequenza iniziale, che non ha bisogno di alcun commento.

Eppure per colpa di questa sua mostruosamente innovativa creatività, Welles fu genio incompreso: alla Universal non piacque come montò il film, troppo difficile nonché moderno, e lo fece rimontare ad Harry Keller, un ordinario ometto, lo stesso che girò delle stucchevoli scene, tra cui quella on the road con la Leigh e Heston, tipicamente in quell'american style che tanto piaceva al pubblico di cheerleader e football player, l'unica rimasta dopo la revisione filologica piuttosto recente, sequenze che Welles non avrebbe giammai girato e che inizialmente pure Charlton Heston si rifiutò di fare in quanto non dirette da Orson.
Successivamente virtuosi si accorsero dello stupro filmico e lo rimontarono come Welles lasciò scritto in un memoriale di 58 pagine.
Ergo quello che possiamo ammirare oggi non è il montaggio d'autore del genio, ma solo un suo riflesso, ciò che Welles avrebbe fatto per salvare il film.
Un film che nonostante la manomissioni rimane imperdibile, forse meno originale di Quarto Potere ma molto più spietato. Un capolavoro wellesiano dove incide "non tanto la grandezza del male, ma l'innocenza del peccato".

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Recensione a cura di Aliena - aggiornata al 21/07/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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