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Il cinema di Jacquot è spesso accusato di dimenticare i suoi personaggi per occuparsi unicamente dello script; a Jacquot verrebbe a mancare la profondità psicologica che, anche nel suo film più celebre, "Sade" rischiava di cadere nella semplice celebrazione (pure insolitamente agiografica) del personaggio dell'ineffabile Marchese.
In realtà stiamo semplicemente parlando di un autore mediocre, capace a tratti, anche se a modo suo e con molti limiti, di raccontare una storia con gusto e forse poesia, ma del tutto deficitario nell'ereditare dai rispettivi soggetti le potenzialità che potrebbero avere i suoi film.
"L'intouchable", presentato in concorso alla 63esima mostra del cinema di Venezia, è stato ignobilmente distrutto dalla critica ed è stato finora accolto con indifferenza dagli spettatori.
E' facile comprenderne i motivi, anche se probabilmente vanno ben oltre le pretese di raccontare un Paese in modo diverso dallo "sguardo occidentale" (forse il solo Amelio, sulla Cina, al di là della sua staticità, ha detto qualcosa di meglio).
Probabilmente la ragione dell'avversione verso questo film è la scarsa empatia che proviamo per il personaggio, la sua indiscussa antipatia, nonostante la vicenda dovrebbe in qualche modo toccarci profondamente.
La storia è semplice e forse convenzionale: racconta di una ragazza francese - Jeanne - che scopre dopo i vent'anni di essere figlia di una relazione della madre con un indiano della casta degli "intoccabili"; decide quindi di lasciare la madre e, successivamente, di recarsi nella nazione asiatica per trovare il vero padre.
A questo punto Benoit ha solo un paio di felici exploit: la conversazione di Jeanne in aereo con un signore indiano di mezz'età che però sparisce misteriosamente come la figlia di Jodie Forster in "Flightplan", e indubbiamente la profonda simbiosi di Jeanne che decide di affrontare le sue origini con un doloroso ma convinto retaggio nazionalista ("io non sono... europea"). Ma due buone intuizioni non fanno, lo sappiamo, un buon film.
L'India di Jacquot è esattamente quella che tutti noi amiamo idealizzare da occidentali confusi e ignoranti, retaggio delle peggiori letture nei bignami delle librerie economiche: quella dei matrimoni combinati ("non ho ancora conosciuto quello che sarà mio marito"), anche in giovanissima età, delle crisi mistiche (l'incontro con una suora occidentale cugina di un omosessuale incontrato in albergo), delle caste etniche e delle diramazioni religiose, del culto della morte nella cremazione dei corpi (che non assume mai il solo significato macabro e doloroso della società occidentale), del traffico fragoroso, della sporcizia, delle malattie e della miseria, o. al contrario, della sfavillante ricchezza.
E' un immaginario pieno di stereotipi, quello di Jacquot, per quanto molti di noi non riescano a immaginare di poterlo raccontare diversamente, e che diventa francamente fastidioso quando, invitata a un matrimonio, la protagonista, vestita con gli abiti locali, è convinta di aver incontrato finalmente il suo vero padre. Sarebbe forse pronta a cedere, ma la realtà è ben diversa e l'incontro non è quello definitivo.
In questa sequenza troviamo tutti i limiti del cinema di Jacquot: a riprova di ciò, dopo una prima parte che cita malissimo Cassavetes, piena di primi piani, provini ed estenuanti dialoghi pseudo- minimalisti, ci troviamo davanti all'estetizzazione di un'India che sembra uscita dai peggiori spot pubblicitari.
Ed è proprio questo scenario a svilire i vaghi interrogativi che lo spettatore avrebbe voluto porsi: se a Venezia 2006 abbiamo assistito a penosi e irritanti tentativi di comprendere le altre culture ed etnie, lo dobbiamo anche film come questo.
Nella sua ignobile estetica globale, la figura di Jeanne coperta col sari alla ricerca di un'identità perduta risulta patetica ed effimera.
Il regista vorrebbe erudirci sulla spersonalizzazione del mondo europeo (capirai...) o sul tentativo di liberarsi dalla convenzionalità dei ruoli occidentali, senza però mai riuscire ad essere davvero persuasivo.
L'apologo finale ci parla di un viaggio che non c'è, di un desiderio che non esiste, di un'esigenza che ha alcun scopo.
Forse come l'esistenza della protagonista, o dello stesso autore, regista di un film che non ha alcun motivo concreto di esistere.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 20/04/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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