Recensione luci d'inverno regia di Ingmar Bergman Svezia 1963
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Recensione luci d'inverno (1963)

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locandina del film LUCI D'INVERNO

Immagine tratta dal film LUCI D'INVERNO

Immagine tratta dal film LUCI D'INVERNO

Immagine tratta dal film LUCI D'INVERNO

Immagine tratta dal film LUCI D'INVERNO

Immagine tratta dal film LUCI D'INVERNO
 

Si potrebbe affermare che "Luci d'inverno" cominci in una fase che già sembra avviarsi verso quella conclusiva. Ovvero che s'apra a discorso in corso, anzi in un punto nevralgico di esso, e che abbia, molto più che altrove, la sua vera introduzione in tutto il cinema antecedente di Bergman; cinema che abbiamo imparato col tempo a conoscere, e di cui abbiamo appreso, seppur non completamente svelato, alcuni simboli e certi dilemmi ricorrenti.
"Come in uno specchio" ci aveva lasciato bruscamente, anche intensamente, potremmo dire.
Le prime immagini di "Luci d'inverno" ci rendono invece una visione mesta, e la sensazione quindi di uno stacco profondo che va al di là dell'arco temporale che intercorre tra le due pellicole, portandoci sin da subito nel cuore di quella che dovrebbe essere la casa di Dio, ma che risulta invece esserne un organo gelido e malato.

Ci troviamo in Svezia, nel suo estremo nord, in un luogo della terra che poco concede al calore e alla luce del giorno. Le lapidarie immagini degli esterni ci mostrano un paesaggio spoglio, intorpidito, di rami invernali, ristretto e paralizzato dal gelo, ovattato nella quiete ma rigidamente, uno scorcio che sembra proiettare quella mancata espansione che prometteva la fede cristiana: non c'è passante o auto che transiti, s'ode lontano il suonare di campane.
Ecco dunque in breve presentata l'ambientazione di "Luci d'inverno" di Bergman: una chiesetta di provincia semideserta, misera e fredda come il paesaggio innevato. Ecco mostrati i suoi personaggi: un pastore protestante, Tomas, nel cui volto sono già segnati tutto lo sconforto e tutta la sfiducia d'una guida disorientata; e un gruppo esiguo di persone ad assistere alla funzione, alcuni dei quali saranno i protagonisti della vicenda.

Evidentemente non c'è più alcuna convinzione nelle parole recitate, o significato nei gesti che si ripetono stancamente per forza di cose, e il rito della comunione è in qualche modo il primo dei colloqui tra il pastore e i suoi sfiduciati; un dialogo ancora privo di parole, ma non per questo meno incisivo di quelli che seguiranno: come se l'offerta dell'ostia e del vino fosse in realtà quella d'un dubbio inestricabile e del vuoto interiore, il sangue e il corpo fiaccati, o anche l'ammissione tacita del pastore del proprio fallimento quale uomo di chiesa.
Si ha subito l'impressione però, vedendo le prime sequenze di "Luci d'inverno", d'una nuova totale conquista da parte del regista svedese, quella suggerita probabilmente dall'opera di Dreyer e che già nei lavori precedenti andava affacciandosi tra le abbondanze simboliche: ovvero l'approdo ad una essenzialità e ad un rigore che equivalgono forse alla necessità di segnare un punto decisivo al discorso artistico di cui, è possibile, si andava avvertendo il timore d'una crescente divagazione.

Non si ascolta musica in "Luci d'inverno", se si fa eccezione per le note dell'organista frettoloso o per il coro mogio dei presenti. Non v'è un pur minimo ricamo o una sequenza che non sia necessaria. Pochi personaggi vi partecipano e tutto avviene in un tempo e in uno spazio ristrettissimi.
Tuttavia, rimane il presentimento che talvolta l'inquadratura accenni ancora a certi simboli, ma che ad ogni modo questi rimangano in un secondo piano, sullo sfondo e non rimossi: innanzitutto è una realtà concreta e immediatamente percepibile quella a cui si assiste.

Dicevamo di alcuni colloqui - anzi molti, per la verità, che poi costituiscono lo scheletro del film - perché il silenzio tra uomo e Dio è prima ancora silenzio tra uomo e uomo, o incomunicabilità, o domanda senza risposta.
Sì il silenzio del Padre è riempito dalle parole insistenti dei suoi orfani, i comunicandi ("Nattvardsgästerna", "I comunicandi" appunto, è il titolo in lingua originale dell'opera) non sanno più rassicurarsi tra loro.
Il dubbio apre uno squarcio insanabile negli animi, e in quello di Tomas per primo - il cui compito consisterebbe nel fugare ogni incertezza spirituale - che turba piuttosto che rincuorare coloro che a lui si rivolgono.

Da qui la figura di Marta è probabilmente quella centrale, non antagonista come potrebbe sembrare ma vera compagna: ella si fa portatrice di una proposta che offre forse l'unica soluzione: l'accettazione dell'amore terreno a scapito della ricerca vana dell'amore di Dio. È questa la luce invernale di cui ci si dovrebbe accontentare.
In ogni caso Tomas non riesce ad accettarla. L'amore proposto dalla donna non è comunque la serenità, è un qualcosa e non il tutto, richiede una rinuncia ed è infine ancora sofferenza, ricerca, lotta, dubbio.
In una lettera Marta rievoca un passato in cui alcune piaghe le comparirono sulle mani, sino a propagarsi successivamente su tutto il corpo. Esse fanno certo riferimento alla passione di Cristo, ma sono assunte dalla donna che accetta inoltre di pregare al posto di Tomas, perché egli non ne è più capace. Acconsente così di trasferire l'afflato mistico e il tormento amoroso sul proprio corpo terreno, e di sopportarli. La stessa miopia di cui è affetta, diviene consapevolezza dei propri limiti umani, la rinuncia a vedere lontano e la volontà di curarsi di ciò che si ha più vicino. Se quindi amare è ad ogni modo sofferenza, domanda non sia disperso questo atteggiamento in un'eternità, ma che si concentri sui rapporti già problematici tra l'uomo e la donna: e si rivolgano ad essi le passioni, gli sforzi, le titubanze, le indagini, i grandi quesiti.
Tomas tossisce, è febbricitante (in questa pellicola dolore fisico e dolore spirituale vengono spesso accostati e confrontati), si cura con delle medicine, non prega. La chiesa è divenuta un ambiente come tutti gli altri, anzi meno confortevole degli altri, e la tunica un modesto indumento che non offre un adeguato riparo. Eppure, egli non abbandona né si sveste. Sente ancora il vincolo del dovere.
Ciò comporta necessariamente il confrontarsi con altre anime smarrite.

Si muove a tal proposito, in "Luci d'inverno", accanto a quella formata da Tomas e Marta un'altra coppia - ugualmente inquieta ma investita da diversi turbamenti - quella di Jonas e sua moglie.
Nel primo colloquio tra il pastore e i due, si racconta di una pagina di giornale in cui si scriveva della possibilità che la Cina potesse disporre della bomba atomica. La notizia ha gettato in un'apprensione patologica Jonas, tanto da indurlo a pensare al suicidio.
È qui presente, seppure brevemente introdotta, una componente che possiamo dichiarare nuova nel cinema di Bergman, l'immissione improvvisa ed esplicita di una minaccia più vasta e imminente (anche politica se vogliamo), che interessa l'umanità intera e che arriva a toccare nel suo intimo l'individuo (un tema che probabilmente riprenderà e svilupperà Tarkovskij nel suo "Sacrificio").
Ma c'è nel mezzo della scena un'immagine che da sola racconta molto bene il senso d'inanità e lo smarrimento esistenziale del pastore: alle richieste di soccorso della moglie, egli risponde così: "Affidiamoci a Dio".
A quel punto Jonas si volta di scatto, fissando Tomas negli occhi, che imbarazzato abbassa lo sguardo verso la mano che ha preso a tremare.

Il secondo colloquio tra i due si verifica in assenza della moglie di Jonas, e si trasforma piuttosto in una tragica confessione da parte del pastore. Qua veniamo a conoscenza della morte della sua consorte, avvenuta qualche anno prima, durante il periodo della guerra civile spagnola.
"Tutte le volte che ho messo Dio a confronto con la realtà, l'ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro quasi… Mi sono sforzato di preservarlo dalla vita e dalla luce, e l'ho cercato nel buio e nella solitudine… Solo mia moglie sapeva vedere il mio Dio…"
A conversazione terminata, un bagliore proveniente dalla finestre investe la persona del pastore, mentre turbato dal nuovo confronto appena conclusosi asserisce le parole: "Dio, perché mi hai abbandonato?" (le medesime che, come verrà evidenziato nell'ultimo dialogo che avviene tra Tomas e il custode, pronunciò Cristo sulla croce - è il dolore per la perdita della fede più forte di quello carnale).
Non è quindi il chiarore di Dio quello che arriva dalla finestra. Nondimeno, il buio che s'instaurò nell'animo di Tomas, coincise con la scomparsa della moglie. La luce invernale è dunque quell'amore terreno proposto da Marta, che a fine di quella sequenza d'improvviso compare.

Avevamo accennato ad una certa conquista - e non solo di linguaggio - da parte di Bergman. Si veda a tal proposito la scena del suicidio di Jonas, che assieme a quella della funzione iniziale e a quella conclusiva possiamo dire che costituisca il vertice di un ideale triangolo.
Il gorgoglio rumoroso di un ruscello. Il venire e andarsene dei poliziotti e dei medici. Tomas che non ha saputo scongiurare con le sue parole la tragedia, cerca di rendersi in qualche modo utile nelle operazioni di recupero del cadavere.
Ed è lì la morte, un corpo atterrato, immobile - non la maschera che gioca una partita a scacchi o che si nasconde dietro ad un confessionale.
Ne "La fontana della vergine" una sorgente sgorgava da sotto il corpo dell'innocenza assassinata; in "Come in uno specchio" s'era fatta mare, quell'acqua, ansiosa attorno ad un isola; in "Luci d'inverno" scorre freddamente accanto al cadavere di un suicida.

Anche la scena che segue, in cui il pastore si reca a casa della moglie di Jonas a portare la notizia, è un grande quadro di spoglio e duro realismo.
Due soli personaggi; una porta; la vedova, che tiene in grembo un'altra vita (nascita e morte s'incontrano violentemente), rinuncia a pregare: "No grazie, devo dirlo ai bambini".
Si siede sulle scale, si rialza subito dopo, entra nella stanza che sta dietro a quella porta. Tomas, uscito dalla casa, scruta per qualche istante da dietro la finestra l'immagine muta della madre che avvisa i suoi figli.

Oggi sappiamo che "Luci d'inverno" si colloca nel mezzo di una trilogia detta "del silenzio di Dio", ma potremmo anche aggiungere che rappresenta probabilmente il centro dell'intera opera del grande regista svedese.
È un momento irripetibile, il film più disadorno e forse assieme il più ricco: e non di simboli, a cui propriamente si è in gran parte rinunciato, non di decorazioni o di bellezze delle quali in seguito Bergman si servirà ancora: ma di significato; il più autentico e dunque anche il più doloroso; forse il più vicino al silenzio.
Sì il silenzio, quello di Dio e degli uomini, dei comunicandi. Il silenzio dei rumori e della musica. Silenzio della preghiera, silenzio della parola. Silenzio delle guerre e della bomba nucleare.

Gli ultimi due colloqui, quello di carattere spirituale tra Tomas e il custode, e quello - decisamente più pragmatico - tra Marta e l'organista, non sono che conversazioni di attori dietro le quinte prima di entrare in scena.

Le luci si accendono.

La musica attacca.

Il suonare delle campane non è un richiamo a raccolta dei fedeli, questa volta: sono lamenti ostinati, grida di disperazione.

I trucchi scenografici figurano vani.

Le panche, di fronte all'altare, sono zitte e deserte.

L'attrice principale, in lacrime - Marta, la proposta dell'amore terreno - siede sola tra gli spalti.

Tomas comincia a recitare - nonostante tutto - il rito stancamente si ripete.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 26/01/2010

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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