luci d'inverno regia di Ingmar Bergman Svezia 1963
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luci d'inverno (1963)

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locandina del film LUCI D'INVERNO

Titolo Originale: NATTVARDSGÄSTERNA

RegiaIngmar Bergman

InterpretiGunnar Björnstrand, Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Max von Sydow, Allan Edwall, Kolbjörn Knudsen, Olof Thunberg, Elsa Ebbesen-Thornblad, Tor Borong, Bertha Sånnell, Helena Palmgren, Eddie Axberg, Lars-Owe Carlberg, Ingmari Hjort, Stefan Larsson, Johan Olafs, Lars-Olof Andersson, Christer Öhman

Durata: h 1.21
NazionalitàSvezia 1963
Generedrammatico
Al cinema nell'Agosto 1963

•  Altri film di Ingmar Bergman

Trama del film Luci d'inverno

Tomas Ericsson, un pastore protestante, dopo la morte della moglie si accorge non solo di aver perso la fede, ma, forse, di non averla mai avuta. In piena crisi non riesce più a dare conforto ai suoi parrocchiani uno dei quali si ucciderà. È una delle vette della produzione bergmaniana: girato in un glaciale bianco e nero tenuto sulle tonalità grige come quelle delle vite dei personaggi.

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Voto Visitatori:   7,97 / 10 (29 voti)7,97Grafico
Voto Recensore:   9,00 / 10  9,00
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Voti e commenti su Luci d'inverno, 29 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Gruppo COLLABORATORI Harpo  @  29/01/2023 19:05:36
   7½ / 10
Bergman è probabilmente il mio regista preferito e in "Luci d'inverno" il silenzio di Dio è il vero protagonista del film. Interpretazione grandiosa di von Sydow, ma ammetto che rispetto ad altri lavori di Bergman ho maggiormente faticato a seguirlo. Prima o poi me lo riguarderò, per il momento lo metto un gradino sotto rispetto ad altri capolavori di B.

Thorondir  @  29/12/2022 14:24:38
   8½ / 10
Altro film sull'incomunicabilità, sulla morte, sulla mancanza di Dio, sulla depressione. Bergman in quegli anni si muoveva costantemente tra questi poli, riflettendo la sua storia personale. Il film è un altro capolavoro stilistico di rigorismo asettico, profondo, perfino brutale (famosa la scena in cui il pastore vomita contro la signora che lo ama tutto il suo disprezzo). Ennesimo titolo formidabile di una carriera unica, forse solo meno convincente di altri, perdendosi in un cripticismo che non riesce ad arrivare come altri titoli del regista svedese.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento emans  @  25/03/2021 23:04:09
   9 / 10
Era da tempo che non vedevo un film di Bergman...quanto mi è mancato.
Nella sua sconfinata filmografia non riesco ad accostarlo a nessun film, ha un rigore e una forma cosi perfetta e scarna nello stesso momento da poter affermare che si tratta di uno dei suoi migliori lavori.
Un sacerdote che con la perdita della moglie ha perso anche la comunione con il "Padre", se mai l'abbia avuta. Quello stesso corpo che offre sotto forma di ostia ai suoi pochi fedeli, una scena lunga ma piena di significato dopo aver visto il film.
Tutto ambientato nel grigiore piu' assoluto, non manca solo Dio ma anche la natura, gli animali, la musica...
Un posto deprimente reso tale perche l'unica "luce" del villaggio che poteva illuminare quelle esistenze disperate non è piu' lui.
Lascia morire un amico, rifiuta l'amore di una donna.
Un vero capolavoro di stile. Emozioni allo stato puro, essenziale.

Filman  @  05/11/2020 21:07:48
   8 / 10
Può un amore essere raccontato e descritto tramite la sola performance attoriale? Può esserne tratto un film solo da questo? Ingmar Bergman propone in NATTVARDSGÄSTERNA (Luci d'Inverno) un canovaccio, quello di un melodrammatico intreccio di respingimenti emotivi, da lui proposto innumerevoli volte e ripetuto in ogni sua variante, come spesso motli autori fanno, e che trova le sue radici negli anni 40.
A differenza delle pellicole di quei tempi, questa variante del cinema romantico ha poco a che fare con il romanticismo ma ha molto a che fare con l'amore, irrazionale e incolmabile e fuori controllo. La potenza di questo film nel descrivere con tale minimalismo certe emozioni è impressionante.

kafka62  @  02/02/2018 13:57:35
   7½ / 10
Ne "Il settimo sigillo", nella scena del colloquio con il monaco che poi si rivelerà essere la Morte, Antonius Block confessa: "Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi, per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli?… Vorrei sapere senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli". In "Luci d'inverno", di sei anni posteriore a "Il settimo sigillo", ad esprimere queste angosciose perplessità non è più uno sfiduciato cavaliere di ritorno dalle Crociate ma un pastore protestante, un ministro di Dio, colui cioè la cui funzione consisterebbe proprio nell'aiutare gli uomini a superare i dubbi che si frappongono lungo il cammino verso la fede, e che invece da questi dubbi è travolto ed annientato, fino a dover mestamente ammettere il proprio fallimento e la propria impotenza. Dio è il grande mistero irrisolto, e forse irrisolvibile, che percorre tutta l'opera di Bergman, fin dal fondamentale "Prigione". La ricerca del divino viene sviscerata dal regista svedese in tutte le sue manifestazioni possibili, da quella laica a quella religiosa, da quella scettica a quella fideistica, giungendo a conclusioni a volte contraddittorie. Così, se per Antonius Block, il quale cerca disperatamente una prova dell'esistenza di Dio, il tormento è che "se egli non risponde penso che non esiste. Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza"; al contrario, per il pastore Tomas è il silenzio di Dio, non già la paura della sua inesistenza, ad essere intollerabile, in quanto carica l'uomo di responsabilità terribili ed angosciose: "Se Dio non esistesse… la vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo… La crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del sole, le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate".
Il fatto è che entrambi, Antonius e Tomas, affrontano la questione di Dio razionalmente, intellettualmente; ma in questa chiave, egli è affatto inconoscibile, lasciando tutt'al più nell'animo umano un malinconico ed invincibile senso di nostalgia, quella nostalgia che Kafka ha mirabilmente espresso nel suo racconto "Il messaggio dell'Imperatore". Calato nel contesto della realtà, Dio ne esce infatti trasfigurato: "Tutte le volte che ho messo Dio a confronto con la realtà, l'ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro quasi" afferma Tomas. Il problema ontologico del male è uno spietato atto d'accusa contro Dio, che rende – se possibile – ancora più difficile credere. Lo aveva ben capito Dostojevskij quando, ne "I fratelli Karamazov", aveva fatto sostenere a Ivan, nel bellissimo colloquio con Alesa, che finché la malvagità del mondo rimanesse a smentirlo, egli non avrebbe potuto credere in Dio e nel mito di un sopramondo che giustificasse in qualche modo ciò che di assurdo e di bestiale vi è nella vita. L'esistenza di Dio è uno scandalo (anche nel senso del termine greco skandalon, insidia), un paradosso che l'uomo può giustificare solo con l'attività irrazionale della fede (e qui, se non temessi di andare troppo lontano, varrebbe la pena di soffermarsi almeno sul "Timore e tremore" di Kierkegaard).
Il protagonista di "Luci d'inverno" la fede l'ha però definitivamente perduta, o forse non l'ha mai avuta. I riti liturgici su cui si apre e si chiude il film non hanno più alcuna parvenza di letizia, sono solo cerimoniali vuoti, tristi e rassegnati, affrontati con la meccanicità di chi, anziché assistere al mistero eucaristico, si appresti a recitare una vecchia ed antiquata commedia. L'inutilità del suo ministero è tragicamente confermata dal suicidio del parrocchiano Jonas, il quale poco prima aveva invano sperato di ricevere da lui qualche barlume di speranza. Il fatto è che Tomas non è più in grado neppure di aiutare se stesso. "Come in uno specchio" si era chiuso con un'apologia dell'amore ("ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido"): in "Luci d'inverno", invece, perfino l'amore è negato, in quanto l'aridità ha irreparabilmente invaso il cuore di Tomas, allo stesso modo in cui lo scetticismo ha ucciso la sua anima. A nulla valgono gli ostinati tentativi di Marta di scuotere la sua indifferenza: la deriva esistenziale del protagonista è completa, e la sua biblica esclamazione "Dio mio, perché mi hai abbandonato?" ne è quasi la logica, ineluttabile conclusione.
Paradossalmente, proprio questa estrema, tormentata ed ambigua identità con il Cristo crocifisso schiude l'unico spiraglio di positività del film, suggerendo la necessità della sofferenza come via obbligata alla salvezza. Le immagini finali non ci aiutano purtroppo a sciogliere l'enigma, anche se, a dire il vero, la chiesa vuota, la riproposizione stanca di rituali apparentemente senza più senso e l'incapacità di superare il dolore della perdita della moglie con l'accettazione dell'offerta d'amore di Marta, rendono poco plausibile uno sviluppo in senso ottimistico del film.
"Luci d'inverno" ha nella prima parte un andamento quasi psicanalitico, proponendosi come il viaggio del regista nella oscura coscienza del protagonista. I personaggi secondari sembrano infatti agire come proiezioni fantasmatiche del subconscio di Tomas, apparendo e scomparendo con l'eterea facilità del sogno. Si tratta forse solo di un'impressione, ma una successione così perfettamente sincronizzata di entrate ed uscite di scena (ad esempio, dopo la lettura della lettera di Marta, Tomas si addormenta, e al risveglio trova Jonas vicino a lui; poco più tardi, mentre è a terra in preda allo sconforto, trova ancora Maria a consolarlo con la sua premurosa sollecitudine) fa propendere per la non casualità di questo clima onirico ed astratto. La seconda parte si avvicina invece a uno psicodramma dai connotati bergmanianamente ben riconoscibili (basti pensare al colloquio tra Tomas e Marta all'interno della scuola, in cui i due protagonisti finiscono involontariamente per ferirsi ed umiliarsi a vicenda, in un confronto tanto più crudele in quanto avviene tra due esseri che si credono votati, per necessità o per vocazione, all'amore.
A parte queste piccole e sfumate disomogeneità nella costruzione narrativa, "Luci d'inverno" risulta di un rigore formale e di un'essenzialità rari. Scarno fin quasi a sfiorare l'ermetismo, disadorno al punto di rinunciare quasi del tutto alla musica e alle scenografie esterne, praticamente privo di emozioni (anche i momenti più drammatici, come la morte di Jonas, avvengono in un clima raggelato, in una sorta di inverno spirituale che ben si accorda con l'inverno meteorologico), il film raggiunge una specie di algida perfezione, in virtù delle sue raffinate simmetrie, della sua compostezza di messa in scena e della intensità dei suoi primi piani. Bergman ha detto più volte che "Luci d'inverno" è, tra tutti i suoi film, quello che predilige. E' difficile essere completamente d'accordo con questa affermazione: pur concordando sulla maestria dispiegata dall'autore, che qui riesce a coniugare il massimo di complessità tematica con il massimo di semplicità stilistica, "Luci d'inverno" finisce inevitabilmente per essere, oltre che l'opera meno disposta a fare qualsivoglia concessione al pubblico, anche quella dialetticamente più chiusa in se stessa, ripiegata in una negatività talmente forte da rischiare di precludere ogni ulteriore, compiuto sviluppo, vuoi ideologico vuoi estetico, se non al prezzo di rovesciare totalmente (come puntualmente avverrà con film come "Il silenzio", "Persona" o "La vergogna") i ferrei presupposti da cui era partito.

Matteoxr6  @  04/11/2016 00:15:28
   5 / 10
Soggetto di un dramma esistenziale concentrico dalle ottime potenzialità, soprattutto alla luce della caratterizzazione dei due protagonisti, in versione dualistica, stilema a cui Bergman è evidentemente affezionato. Brevissimo, nemmeno un'ora e venti di pellicola, ma sufficiente per provare noia e una certa perplessità distaccata. Attribuisco il primo sentore alla considerazione che faccia parte della cosiddetta trilogia, che non ho ancora avuto modo di completare (ma lo farò presto); il secondo è probabilmente dovuto alla mia sanità mentale, per cui le vexatae questiones delle angosce esistenziali le vivo nella costellazione razionalistica della filosofia (tenendo a mente di essere un dei sei miliardi di mediocri su questa Terra, s'intende). Ammetto di non aver avuto, sin ora, un rapporto felice con il cinema di Bergman, che però mi interessa e di cui sicuramente apprezzo lo stile registico, che qui non fa eccezione, con le sue inquadrature essenziali, contrapposte e intimistiche.

massapucci  @  23/01/2014 02:23:52
   8 / 10
Gran film, bergmaniano nello stile e nei contenuti. Interpretazione eccellenti quelle di Gunnar Björnstrand ed Ingrid Thulin. La tematica del "silenzio di Dio", presente in altre sue opere (tra le quali anzitutto "il settimo sigillo"), è affrontata in maniera profonda; e per quanto il senso del film possa sembrare che sia manifesto già in superficie, tuttavia dietro ogni frase si nascondono significati e rimandi. Lo stile è sobrio, asciutto, diretto.
Film consigliato.

Gruppo COLLABORATORI Compagneros  @  28/08/2013 17:02:54
   8½ / 10
Grandissima opera dell'enorme Bergman.
Il rumoroso silenzio di Dio è il fulcro della pellicola. Tra Dostoevskij e Kierkegaard, un dramma fortissimo e sempre tragicamente moderno. Ottimo.

Invia una mail all'autore del commento nocturnokarma  @  17/01/2013 22:28:47
   6½ / 10
Il più verboso e faticoso della "trilogia del silenzio di Dio". Una ridiscussione della propria fede fatta non di silenzi, ma con un continuo ricorso alla parola. Bergman non lascia parlare le immagini, come nei folgoranti altri due "capitoli", e il senso di oppressione e disagio che i cupi e meditabondi sono un ostacolo non indifferente per lo spettatore. A fare uno sforzo si apprezza però il dubbio dell'autore, le cui domande non hanno risposte, e con assenza di predica c'è solo un abisso di gesti (e riti) la cui finalità non è né salvifica né consolatoria.

Lory_noir  @  10/03/2012 16:15:34
   6½ / 10
Ho apprezzato alcuni punti e le interpretazioni di questo film ma non sono riuscito ad apprezzarlo in toto forse perché lontano dal mio mondo e dalla mia età.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR pier91  @  02/02/2012 14:26:22
   9½ / 10
"L'articolo diceva che i Cinesi erano imbevuti d'odio e che era solo una questione di tempo prima che la Cina ottenesse la bomba atomica. Non hanno nulla da perdere, questo hanno scritto."
Leggendo quelle righe Jonas alimenta dentro di sé la percezione di un' insensatezza assoluta, riguardo non solo all'esistere umano ma a quello del mondo stesso. E' una rivelazione terribile, un momento di pura lucidità. Lo assale una profonda compassione nei confronti dell'uomo, un senso di pietà insopprimibile.
Tomas comprende un simile travaglio, sebbene la sua sia una consapevolezza assai più fragile e impalpabile, incagliata com'è in una dimensione di perenne miopia. Egli non ha il coraggio di vivere né di morire, è un vigliacco, incapace di affermare il vero se non con ignobile ritardo. Le parole che riversa addosso a Marta nella sua prima esternazione di sincerità sono fra le più disturbanti mai udite (Haneke le ripropone, meno sottili ma più rivoltanti, attraverso il personaggio del dottore ne "Il nastro bianco").
Marta è un personaggio indimenticabile, estremamente corporeo. Di lei non colpisce tanto l' amore così goffo e penoso per il pastore, quanto l' intolleranza verso i castighi più insulsi e volgari della vita, il desiderio di un soffrire più alto e degno, la ricerca di una sacralità laica del dolore.
L'epilogo, con la limpida riflessione del sacrestano sulla passione di Cristo, non approda ad alcuna risoluzione, è perfetto nella sua ambiguità.

Invia una mail all'autore del commento Elly=)  @  10/08/2011 23:49:39
   6 / 10
Un rigoroso e impietoso dramma da camera, chiuso tra una chiesa e poche case di un villaggio. Al centro l'uomo solo in un microcosmo intirizzito che sperimenta uno dopo gli strumenti per sconfiggere tale condizione: la memoria e l'esorcismo, l'amore carnale e quello ideale, il sarcasmo e la fede, il figlio e il prete, la stoica sopportazione e la digrignante ironia.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR elio91  @  28/06/2011 20:16:09
   7½ / 10
Mi ha indispettito ed annoiato non poco la mezz'ora iniziale,eccessivamente verbosa per quanto significativa e di certo indispensabile per quello che poi affronta il regista.
Ma è in ogni caso l'ennesimo tassello riuscito all'interno di una vasta filmografia che continua a scandagliare l'animo umano,stavolta con derive angoscianti e pessimiste riguardanti Di0 e la religione come nel precedente "Come in uno specchio" e nel successivo "Il Silenzio".

Laisa  @  28/04/2011 02:00:56
   6½ / 10
ho visto almeno 40 film di questo regista, e posso senza dubbio dire che questo è il peggiore: dialoghi poco brillanti e tremendamente noiosi...

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Gruppo REDAZIONE amterme63  @  02/12/2010 22:42:17
   8 / 10
Per apprezzare questo film occorre avere interesse e passione per la filosofia, la religione, l'etica e in generale per tutto quello che viene pensato a proposito dell'esistenza umana vista nel suo complesso.
Se non si ha questo interesse allora il film è semplicemente una tortura, un assurdo, un nonsenso pesante e noioso. Se si è interessati allora non si può fare a meno di apprezzare la grande finezza di pensiero espresso, la complessità e l'universalità dei temi, la sincerità e la passione umana e la grande arte scenica e recitativa. Se i temi filosofico-spirituali piaccono, si viene letteralmente presi nel vortice dei pensieri e non si può fare a meno di immedesimarsi, di riflettere, di trarre le proprie conclusioni.
Qualcosa però è andato perso. Noi viviamo in un'epoca ormai completamente scettica, permeata fino al midollo di etica materialista ed economica; non possiamo capire il pathos del film, di quell'epoca. Allora (negli anni '60) il vecchio mondo etico (simboleggiato da Dìo) viveva le ultime convulsioni prima di cedere definitivamente al nuovo mondo edonistico (simboleggiato dal Consumo). Bergman ha saputo egregiamente ritrarre la crisi irreparabile di chi aveva un fede e piano piano la stava perdendo.
Non si può fare a meno di confrontare questo film con il "Diario di un curato di campagna" di Bresson/Bernanos. Entrambi sono film austeri, poveri, disadorni, concentrati. I protagonisti sono dei sacerdoti, figure lacerate, fisicamente e spiritualmente tormentate. Eppure c'è una profonda differenza. Il Curato di Bresson si tormenta per non essere all'altezza, per non riuscire a compiere a dovere il suo magistero, ma mai (se non in punto di morte) dubita della propria fede e dell'esistenza di Dio. Il Pastore di "Luci d'Inverno" va invece oltre e arriva a dubitare di tutto e disperato cerca una conferma, un segno che lo sollevi dal vuoto che sente dentro. Il risultato è un'impasse totale, un vano sforzo che lo porta all'inaridimento, alla chiusura, al rifiuto pratico della vita.
Il film segue una linea molto abile e studiata. Il primo quarto d'ora è un quadro positivo e quasi poetico di una funzione religiosa. Si parte da una situazione apparentemente positiva. Poi piano piano, con un'incedere costante e sempre più intenso e interiormente drammatico, dall'armonia si passa al dolore intensissimo. Gunnar Bjornstrand ha sempre interpretato egregiamente parti brillanti, qui mi ha lasciato a bocca aperta dalla perfezione e dall'intensità drammatica che è riuscito a dare al Pastore. Ingrid Thulin, anche lei, che brava, mamma mia! Che magnifico ritratto di una donna modesta, senza pretese, tutta presa dalla sua idea di amore totale verso una persona, così intenso e partecipato da diventare ossessivo, asfissiante, così forte e totale da superare anche le peggiori umiliazioni.
Bergman ha voluto probabilmente di nuovo riflettere sulla figura del proprio padre, ha voluto capire e interpretare il suo distacco, la sua durezza. Lo spunto del padre lo ha portato all'approdo del dubbio, del "silenzio di Dìo". Del resto il film giustamente ricorda che persino Ge.sù nel momento cruciale ha dubitato: "Padre, perché mi hai abbandonato?".
In questo film inoltre si vuole persino mettere in dubbio l'assunto che Dìo esiste grazie all'amore che doniamo agli altri (la conclusione di "Come in uno specchio"). Un personaggio dileggia questa idea. Del resto il personaggio della Thulin sta lì a dimostrare che anche l'amore va saputo dare e soprattutto bisogna essere in grado di riceverlo.
Il finale è ambiguo e interlocutorio. Si lascia lo spettatore senza conclusione. Il pastore sembra voler continuare nonostante tutto, una forza disperante lo fa continuare, del resto "bisogna vivere".
Però quanta pena e quanta amarezza lascia dentro questo magnifico film!

3 risposte al commento
Ultima risposta 12/12/2010 13.35.11
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dave89  @  03/04/2010 01:25:54
   8½ / 10
film che fa riflettere sulla fede e sulla vita.timbro di berman inconfondibile.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR Ciumi  @  13/09/2009 18:58:19
   9 / 10
E' quella di dio, la luce nordica, d'inverno. Una chiesetta semideserta, un pastore senza fede, una donna atea che lo tormenta con proposte amorose, un parroco preso da nevrosi da bomba atomica, la strada di casa immersa in un algore niveo, spoglio, silenzioso. Il pastore non sa più infondere conforto. Il parroco si toglie la vita dopo essersi confidato con lui. La messa conclusiva si svolge tra un uomo e una donna soltanto.
Una poesia difficilissima e recitata con poche e semplici parole, che narra d'una coscienza afflitta dall'orrore di una luce gelida e assente che è più terrificante dell'oscurità, e che coincide col nulla. Il più essenziale dei film di Bergman. Il meno criptico e il meno figurativo. Forse il più vicino al silenzio.

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Ultima risposta 26/01/2010 07.17.28
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Invia una mail all'autore del commento wega  @  10/08/2009 19:39:27
   7½ / 10
Grandissima fotografia di un Sven Nykvist al servizio di Bergman che - come Dreyer - era costretto a sfruttare al meglio le pochissime ore di luce a disposizione dell' inverno scandinavo. Prendendo spunto da "Il Diario di un Curato di Campagna" di Bresson, il regista continua la presunta trilogia (per nulla confermata da Bergman) sul silenzio di D.io, che qui, come nel precedente "Come in uno Specchio", è, per il pastore Tomas, rappresentato dall' Amore. Tomas fallisce (Von Sydow) come il curato francese, ma il finale sembra gettare una nuova luce, che è stata funzionale alla storia per tutto il film. Fastidioso tanto è eccellente lo scavo psicologico, soprattutto per il personaggio interpretato dalla Thulin.

drabin  @  15/02/2009 19:35:00
   8½ / 10
Un ottimo film del Bergman più classico e conosciuto, quello dei grandi interrogativi esistenziali, radicati nel silenzio della natura, e di Dio soprattutto. Gli attori sono immensi, capaci di dare i brividi in ogni inquadratura, e questo è anche (e soprattutto) merito del Bergman regista, sempre grandissimo nel gestire i suoi attori e nel cogliere con la tipica fotografia i sentimenti scavandoli dal volto dei protagonisti. La Thulin quando fissa l'obiettivo scavando nella memoria è un pezzo di cinema da antologia, altissimo e magistrale, da vedere e rivere per imparare. Qui scompare qualsiasi sarcarmo e qualsiasi ironia si dilegua di fronte all'immobilismo divino, alla tragedia (incomprensibile) che attanaglia l'uomo da sempre, e gli preclude di vivere autenticamente qualsiasi sentimento (anche l'amore per una donna, autentico alter-ego divino ma rovesciato). E il simbolismo - tipico del Bergman più "puro" ed austero - raggiunge il suo culmine con la grandiosa scena finale. Un film importante, essenziale e fortemente tragico: ma di fronte al silenzio di Dio chi è che si è rapportato meglio? Il prete che ostinatamente continua la sua "missione" o l'esasperato padre di famiglia che si dà alla morte? Dio, do certo, non ci darà la risposta ad un simile quesito...

Guy Picciotto  @  13/12/2007 11:36:15
   9 / 10
Luci D'Inverno è un film ancora attualissimo, anzi, mai come oggi lo trovo attuale, la chiesa oggi si rivolge alle masse trascurando qual è la vera missione del cristianesimo, cioè rivolgersi ad un Dio, ovvero all’io, che sta all’interno dell’individuo e non all’esterno, la chiesa ha sequestrato il Dio padre, sequestrato il Cristo, sequestrato il santo spirito, desacralizzando quindi un mondo senza più fede in se, proprio, e infine, proprio per questo, senza più fede in Dio. Proprio perchè lo ha estromesso lo colloca al di fuori e non più nell'interno di quella che potremo definire, si passi l'abuso, l'anima propria, cioè il proprio interno e quindi la chiesa si rivolge ormai alle masse, all’esterno. Si occupa d'altro, di socialità, di mondanità, che non sono altro che uno schiaffo al cristianesimo, Che cos'è la fede? La fede sul dizionario è una credenza religiosa, ecco una credenza religiosa, ma religiosa in che? Fede in Dio? Fede in che cosa? La fides, fides vuol dire anche fiducia e fiducia è anche la fidejussione bancaria, per esempio. E' una fiducia ma sempre su una credenza. Una fede non può essere mai una fede esterna, cioè al di fuori, di noi, al di fuori cioè del nostro interno. E' l'uomo a creare o a crearsi un Dio. Come necessità, come surrogato, come simulacro direbbe Klossowsky, ma non è mai Dio a poter creare l'uomo, in quanto se Dio esistesse sarebbe nella necessità, nello spinozismo è. Mastro Eckhart chiarisce che Dio non è la deità, ecco quindi che Dio "è" nella necessità. Il Cristiano credente ha una sua fede, ma interiore. Il suo Dio è interno. Cosa coltiva invece la chiesa di Dio? I riti della fede, il rituale liturgico, mondano e quindi edonistico, e il disinteresse della fede, fare cassa Orazio! fare cassa! il profitto!

Gruppo COLLABORATORI SENIOR foxycleo  @  24/10/2007 14:32:38
   8 / 10
Secondo film della nota trilogia di Bergman "Luci d'inverno" è un film angosciante che parla dell'inettitudine alla vita e dell'incapacità di aiutare il prossimo.
Il genio di Bergman in meno di 90 minuti riesce a far porre ad ogni essere umano domande capitali per l'esistenza.
Un film sul silenzio, sulla ricerca di una propria identità e di una giusta strada.
Freddo ed inquietante quanto l'ambientazione nella chiesa spoglia.

Ch.Chaplin  @  06/09/2007 01:57:29
   9 / 10
gran bel film, ma da quello ke avevo sentito pesnavo addirittura meglio..introspettivo fino al midollo, ancor + di molti altri film di bergman..un pugno ai dubbi e alle infinite incertezze del cammino della vita..le atmosfere sono sempre tetre e impressionanti..ci sarebbe da scrivere libri sui suoi film (e su questo un trattato teologico oltre ke al solito filosofico!), ma in una recensione non ci si può dolungare troppo. bel film ke accomuna un po tutti, in tutte le epoche e in tutti i paesi..bergman universalista come sempre

Beefheart  @  12/08/2007 15:39:14
   8½ / 10
Film decisamente ottimo: minimalista, scarno, breve e spoglio, ma meditabondo, pregno di riflessioni, dubbi, domande e sconcerto. Le tematiche, tipiche, vanno dalla perdita della fede religiosa al vuoto, interiore e circostante, che ci attanaglia in una cronica incomunicabilità logorante ed alienante. I protagonisti animano (nel limite del possibile) il paesaggio rurale ed invernale del nord della Svezia e si dimenano alle prese con sgomento, depressione e solitudine, cagionati dalla deriva morale e spirituale in cui versa l'animo umano. Tra gli altri, un pastore protestante, in seguito alla perdita della moglie, si interroga circa quella fede che potrebbe avere definitivamente perso o che forse non ha mai veramente avuto. Intorno a lui, persone altrettanto fragili, vacillanti e bisognose di sostegno, coraggio e forza d'animo. Risolto in due o tre interni ed un paio di esterni repentini, i pochi eventi sono solo di contorno, mentre è preponderante la crisi di coscienza del protagonista che rinuncia a credere e sperare in se stesso e nel prossimo, abbandonando ambedue ai rispettivi solinghi destini. Certamente non il più ottimista dei film del regista e, nonostante l'estrema semplicità, nemmeno dei più facili da metabolizzare; ciò nonostante lo definirei una vera chicca della sua corposa cinematografia, proprio per l'efficacia con la quale sono resi i tormenti che affliggono Bergman ed i suoi personaggi, senza l'abuso di particolari simbolismi o pesanti complicazioni intellettualistiche che, generalmente, finiscono con l'inevitabile restrizione del bacino d'utenza. Tra gli attori, von Sydow eccezionalmente defilato non sfigura, mentre Bjornstrand fornisce l'ennesima grande prova. Ingrid Thulin addirittura bravissima. Solita ottima fotografia. Da vedere.

AKIRA KUROSAWA  @  19/07/2007 01:56:01
   7½ / 10
boh sono d accordo con fidelio, per me nn è assolutamente all altezza di capolavori come il posto delle fragole, il settimo sigillo, fanny e alexander e la fontana della vergine, ma cio nn toglie che sia un film bellissimo; l ho trovato un po noioso, come anche sinfonia d autunno, ma tiene in se numerosissimi significati sotratutto sull uomo, la sua vita , il rapporto con la fede; ecc
perfette a mio avviso le interpretazioni di tutto il cast, stupenda la fotografia , ed il titolo nn so perchè mi piace tantissimo, forse per il contrasto che c è tra le due parole , nn lo so.
bel film ma per me nn tra i migliori di bergman

ds1hm  @  12/05/2006 14:12:34
   9 / 10
uno dei tanti film brevi di Bergman. bellissimo l'impatto e bellissime le consegueze per lo spettatore: una parentesi mentale, uno squarcio psichico sia per un credente che per un ateo nelle conferme dell'impossibilità di ogni fede e nella cruda conferma di una solitudine umana incolmabile. non è l'apice della produzione di Bergman ma è semplicemente un film che cade nel grande periodo della sua arte. la fotografia di questo film è unica perchè mai un biano e nero ha trasmesso sensazioni tanto reali allo spettatoe e poche volte dei colori (o l'assenza degli stessi) sono stati specchio e sintesi dei protagonisti e delle loro storie.

chiara_80  @  28/02/2006 15:01:13
   9 / 10
Dopo Sorrisi di una notte d'estate (e tutte le personali perplessità che ne seguirono) guardai luci d'inverno: film di una differenza unica, film che sembrano essere scritti da persone diverse. Luci d'inverno nel tempo è entrato nella mia testa come il classico film alla Bergman, senza elementi eccelsi o sperimentali, è un film breve, semplice ad una sua primissima impressione, ma sono convinta che ad ogni successiva visione ci si accorge della sua tacita profondità e complessità.

Gruppo COLLABORATORI fidelio.78  @  27/01/2006 14:48:54
   7 / 10
Secondo me, un “minore” tra le opere del maestro.
Mai banale, ma talvolta troppo ostentato, il film vuole mostrarci l’inverno di un cuore.
Ci riesce, ma il film non è all’altezza di altri. Troppa pesantezza per una sceneggiatura che tarda a decollare e per uno stile registico troppo statico per risultare interessante. Il risultato è il disegno bellissimo di due persone sole, con molti (troppi) momenti noiosi e qualche affondo “alla Bergman” che vale la visione del film.

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Ultima risposta 08/08/2007 14.15.44
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Mpo1  @  17/09/2005 16:32:48
   8 / 10
'Luci d'inverno' è il secondo film della trilogia bergmaniana che inizia con 'Come in uno specchio' e si conclude con 'Il Silenzio'. Per me è senza dubbio il meno bello dei 3, ma è cmq un'opera significativa e ricca di elementi interessanti.
Si tratta di un "dramma da camera", come il precedente 'Come in uno specchio', ma le innovazioni stilistische del film precedente vengono portate alle estreme conseguenze. E' un film estremamente essenziale, gli interni sono spogli, vuoti, gli oggetti spariscono per lasciare il posto ai volti, su cui è focalizzata l'attenzione. Gli esterni sono quelli innevati dell'inverno svedese. Il paesaggio tende a rappresentare l'interiorità dei personaggi.
Il protagonista Tomas è un pastore che ha perso la fede, anzi non l'ha mai avuta, avendola "confusa" con l'amore per la moglie. Morta la moglie, Tomas si rende conto di non avere più ragioni per vivere. Ci si può ricollegare al finale di 'Come in uno specchio": per Tomas Dio era l'amore, l'amore per la moglie. I fedeli (qui Max von Sydow) vorrebbbero essere confortati, ma Tomas non riesce più a propinare false speranze e menzogne consolatorie. E' meglio una bugia consolatoria o una verità che può far male? Ma al di là del tema religioso, la crisi di Tomas rappresenta una più ampia crisi esistenziale dell' uomo.
Ingrid Thulin interpreta Marta, la maestra atea innamorata di Tomas. Interessante notare come il personaggio più positivo del film sia una donna atea, mentre il pastore è uomo poco simpatico, tanto che giunge a maltrattare e denigrare la donna che lo ama. "Dio non ha mai parlato perchè non esiste. E' così semplice." dice Marta a Tomas (più o meno), e la mia simpatia va tutta a lei, come andava a Jonas, lo scudiero ateo de 'Il Settimo sigillo'. Ma Tomas rifiuta l'unica persona che potrebbe aiutarlo.
La moglie di Bergman (quella che aveva all'epoca) aveva definito il film "un capolavoro di monotonia", ed effettivamente cosa si può dire di un film che si apre e chiude con una messa... riguardo alla scena finale, Bergman non sapeva come chiudere il film e si ispirò a un fatto reale accaduto a suo padre (pastore a sua volta). Truffaut interpretava a suo modo la scena finale, vedendo nel pastore la figura del regista, che deve andare avanti per la sua strada anche se gli spettatori sono pochi... altre interpretazioni vedono nella messa finale un rituale vuoto, che viene portato avanti anche se non ha più significato. Bergman dichiarò che con questo film aveva chiuso con il problema religioso. Nel sucessivo 'Il Silenzio', Dio è nominato una sola volta, quando viene inutilmente invocato da uno dei personaggi. Non c'è nulla, esiste solo il silenzio.

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Ultima risposta 18/09/2005 09.53.48
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Crimson  @  01/09/2005 10:44:15
   10 / 10
"Luci d'inverno" fà parte della famosa trilogia Bergmaniana insieme a "Come in uno specchio" e "Il silenzio". Riguardo tale trilogia ho letto solo che è stata oggetto di critiche da parte della Chiesa, ma niente di più; perciò, come per gli altri due film, anche per questo vale lo stesso discorso: la mia interpretazione è personale e in quanto tale confutabilissima, per cui accolgo volentieri opinioni diverse in proposito.
Passo subito al film: per me, un Capolavoro! innanzitutto è un film davvero inquietante. Infatti già l'ambientazione da sola rende il clima freddissimo; il film si svolge quasi per intero all'interno di una chiesa, sempre semideserta. Ho notato, come del resto in molti film del regista, che le scene tra di loro sono nettamente staccate, e ci sono diversi momenti di silenzio, in cui a regnare sono i primi piani su volti sofferenti (una caratteristica anche questa). Ciò amplifica ulteriormente l'atmosfera di angoscia. Ma non basta, perchè (come al solito) sono i dialoghi a definire più di qualsiasi altra cosa tale atmosfera e ad assumere il ruolo principale nello sviluppo di tutta la storia. Il film inizia e finisce con la celebrazione di una messa, in due modi completamente differenti l'uno dall'altro a causa di tutti gli avvenimenti che intercorrono nel mezzo: la prima scena infatti è lunghissima, intrisa di senso di partecipazione e di sacralità; mentre l'ultima è immersa nel silenzio, e non dà affatto l'impressione di sacralità ne dì partecipazione (qualcuno poco prima esclama "al suono delle campane accorreranno tutti i fedeli"..poi vedrete cosa succederà). Tomas stesso (l'immancabile Gunnar Björnstrand) appare cambiato tra le due sequenze. Si rende conto che ha dato la propria vita solo ed esclusivamente al servizio della defunta moglie e non a Dio, nè a nessun altro. L'aspetto peggiore secondo me è che si rende conto soprattutto che è stato un pessimo pastore, dal momento che non ha mai avuto fede. I suoi sermoni, i suoi consigli, sono stati e sono assolutamente vuoti, privi di senso. Davanti a Max von Sydow sembra quasi chiedersi "ma che sto dicendo?" e si rassegna al fatto che è meglio tacere, dal momento che non serba affatto l'amore e la parola di Dio. Egli stesso riferisce "mio padre ha voluto che diventassi pastore", e ciò rende l'idea che ha dedicato la propria vita ad un ruolo che si realizza nel servizio di Dio e nell'infusione della sua parola nel prossimo. Ruolo quindi che egli ha ricoperto malissimo, perchè oltre a non avere fede è fortemente egoista (forse le due cose sono collegate in questo caso) avendo "speso" la propria vita solo per una persona e non per gli altri. Di conseguenza, e come se non bastasse, la relazione di natura sentimentale intrapresa alla morte della moglie con un'altra donna (Ingrid Thulin, qui occhialuta e abbruttita - ma sempre strabrava) è fasulla. Egli stesso chiarisce che non ha mai amato la Thulin (di cui non ricordo il nome nel film, come al solito) dopo che lei al contrario gli rinfaccia il suo distacco e in una lettera gli confessa di amarlo. Ora, secondo me la Thulin è un pò il riflesso della devozione cieca e egoista di Tomas per la moglie, per cui riesce a salvarsi in tempo dal pericolo di "gettare al vento" tutta la propria vita. Tomas invece è in uno stadio ormai quasi irreparabile. Nel corso del film, poveraccio, gli capita un'altra sconvolgente esperienza: non riesce a confortare un pover'uomo (Max von Sydow appunto, descritto come "depresso maniacale" dall'ispettore di polizia, ma potrebbe essere uno schizofrenico in realtà) che ha un delirio di riferimento in cui ritiene che i cinesi vogliano lanciare la bomba atomica su di loro, e si spara alla testa. Per cui il pastore si sente anche responsabile di questo suicidio. Scrivevo prima, "stadio quasi irreparabile"..quel "quasi" perchè dalle parole della Thulin "tu finirai per odiare gli altri come odi te stesso!" ho letto una flebile speranza affinchè l'amore per gli altri possa ancora emergere in Tomas. Eppure è chiaro a tutti che tale amore si stabilisce solo quando una persona è in pace con la propria coscienza e impara ad amare sè stesso configurandosi in una logica di sè stesso/mondo come un legame indissociabile di interscambio tramite cui realizzarsi. Ma se Thomas riuscirà a fare questo passo, non è dato sapere. Nel corso del film ho sempre avvertito la sua come una figura verso la quale provare un senso di pietà e non di condanna. Egli ad un certo punto del film esclama "Dio perchè mi hai abbandonato?" e più in là nel film c'è un bellissimo dialogo col sagrestano che gli esprime il proprio parere riguardo la sofferenza di Cristo, che secondo lui ha raggiunto l'apice quando in punto di morte ha esclamato proprio "Dio perchè mi hai abbandonato". Che parallelo strano. Io questo non sò proprio spiegarmelo. Come ne "La Fontana della Vergine" credo che Bergman si sia divertito a focalizzare l'attenzione su due piani diversi: quello delle vicende terrene e quello del soprannaturale. E così Dio c'è? chi può dirlo con certezza e chi può negarlo con evidenza. Bergman ovviamente lascia allo spettatore le proprie riflessioni, e lo fà presentandogli un piatto di una complessità mostruosa, proprio come questo primordiale interrogativo umano. Termino con le parole di Tomas, che ad un certo punto del film esclama una frase simile "Se veramente Dio non esistesse, nulla avrebbe più importanza. La vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo; la crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del giorno; la sofferenza non andrebbe più spiegata; non esisterebbe un creatore nè un tutore; niente pensieri".

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