Voto Visitatori: | 6,56 / 10 (8 voti) | Grafico | |
"Nemmeno il destino", tratto dall'omonimo romanzo di Gianfranco Bettin (Feltrinelli, 1997 e 2004), racconta di tre adolescenti che vivono alla periferia di Torino e affrontano quotidianamente problemi più grandi di loro: una madre affetta da una grave patologia psichica, un padre alcolizzato, un ambiente ostile e incapace di offrire alcuna prospettiva di futuro. Ai tre spetteranno destini diversi, tutti fra loro uniti da un disperato desiderio di fuga.
A differenza di tanto cinema contemporaneo, il primo grande merito del film è di avere degli interpreti che hanno le facce giuste per i loro ruoli. Il regista, Daniele Gaglianone, ha preferito scegliere i suoi attori fra non-professionisti, ottenendo risultati di un'innegabile vitalità espressiva. La freschezza e naturalezza dei tre ragazzi protagonisti sembra quasi un miracolo. Che dire poi del volto vissuto fino alla consunzione del padre di Ferdi? Tra le sue infinite rughe, simili ai solchi che scava l'acqua nella roccia, si legge, senza tanto bisogno di dialoghi, la sofferenza di tutta una vita passata in fabbrica a respirare veleni e la distruzione che porta con sé l'alcol. La bellezza allucinata della madre di Ale è un altro pezzo forte del film: anche a lei sono riservate poche battute e forse non servirebbero neppure gli insistiti flashback per spiegare cosa è stata la sua vita e cosa l'ha portata a questa catatonica follia.
In un mondo di adulti distrutti dalla durezza della vita, si muovono i tre ragazzi, tre adolescenti pieni di vitalità, con desideri semplici e comuni come andarsene da quella periferia squallida e inospitale oppure, ancora più semplicemente, tornarsene a casa e trovare una famiglia normale e una tavola apparecchiata. I genitori (e la scuola, e la società) sono colpevoli sì di non regalare ai loro figli una vita normale, ma colpevoli fino a un certo punto: anche per loro non c'è niente di semplice, nessuno ha diritto a scorciatoie, c'è solo da sperare di trovare dentro di sé il coraggio di ridere delle proprie disgrazie.
Il regista non sempre si muove in modo agile in questo mondo dolente di allucinata disperazione e attua delle scelte di regia interessanti ma talvolta non condivisibili. Per esempio, l'uso della luce e del colore è abbastanza singolare - con una fotografia iper-contrastata - così come quello delle asincronie sonore e delle discontinuità temporali. Per quanto riguarda la luce, quando ritrae i ragazzi è insistentemente sparata, come un flash, quasi si trattasse di una foto filmata, già ricordo di quello che, seppure è presente, sta per diventare passato mitico (quello dell'adolescenza e dell'amicizia fedele e scanzonata). Toni più realistici per la madre di Alessandro, salvo poi un'inarrestabile discesa verso il buio che interessa entrambi a mano a mano che si procede nelle storia. Nel finale i due sono stranamente ripresi in bianco e nero, col rischio di creare una confusione interpretativa, come se si trattasse di un sogno dall'aldilà e non di una situazione reale. Le asincronie sonore e le discontinuità temporali giovano al film fintantoché assumono un preciso significato narrativo, cosa che non sempre si verifica. Insomma, il limite di alcune scelte sta nella loro insistenza che ne riduce il significato.
Il film soffre anche a causa della lunghezza e della lentezza di alcuni passaggi narrativi: tolti una parte dei flashback sulla madre, la cui situazione è chiara senza bisogno di scendere nei particolari, e ridotto il tempo dedicato al ricovero in comunità e alla fuga in montagna, forse il film sarebbe più agile e godibile.
Rimane, malgrado i difetti, una buona opera da un regista che ha scelto la strada impervia del cinema di denuncia e della ricerca di un linguaggio espressivo originale.
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Recensione a cura di Susanna! - aggiornata al 13/12/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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