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Ritorno alla regia di Gianni Zanasi dopo otto anni di silenzio, "Non pensarci" può essere definito film del genere "commedia" perché di essa declina tutte le accezioni dal drammatico al patetico al comico.
Un giovane un po' sfigato (Mastandrea, ormai abbonato a rappresentare il complessato sin dai suoi esordi), abbandonato dalla fidanzata e con scarso successo nel mondo dello spettacolo, torna nella casa natìa in cerca di ossigeno e di aiuto psicologico, ma al contrario si trova ad essere il conforto che tutti aspettavano.
Trama forse trita e ritrita sin dai tempi molto buonisti di Frank Capra, ma che scorre liscia come un bicchiere d'acqua grazie alla valida interpretazione del protagonista e degli altri personaggi secondari (in testa il sempre più bravo Battiston), che hanno dalla loro la capacità di rendere normali le loro nevrosi e stramberie.
La famiglia da buen retiro diventa invece coacervo dei malesseri, del male di vivere della nostra società: la sorella del protagonista, paradossalmente l'unica ad aver fatto una scelta consapevole sebbene anticonformista, ha mollato gli studi per lavorare all'acquario; la madre frequenta discutibili gruppi new age; il padre, costretto ad abbandonare l'adorata azienda di famiglia per seri motivi di salute, pensa solo al golf, restando mentalmente legato al mito della famiglia da Mulino Bianco nonostante siano evidenti le prove del fallimento del suo ideale; il fratello maggiore, apparentemente serio e posato padre di famiglia nonché responsabile dell'azienda, nasconde in realtà frustrazioni e limitazioni psicologiche ed è sull'orlo del divorzio, pur mostrandosi agli altri marito felice ed irreprensibile.
Il ritratto che l'emiliano Zanasi fa del ricco nord-est è impietoso: piccoli imprenditori in crisi, donne e uomini sull'orlo di una crisi di nervi e tutto questo nascosto da una grossa patina di perbenismo, lo stesso presente a metà anni Sessanta in "Signore e signori" di Pietro Germi, ambientato però in una cittadina veneta divisa a metà tra provincialismo e trasgressione.
Emerge comunque la solidarietà familiare, caratteristica questa tutta italica, anche se l'unico in grado di aiutare effettivamente l'impresa a picco finisce con l'essere l'anziano patriarca nonostante gli sforzi volenterosi ma - ahimè - infruttuosi dei suoi pargoli.
Spicca anche tra gli altri il personaggio interpretario da Paolo Briguglia del giovane deputato, il più giovane d'Italia, al quale i tre fratelli si rivolgono in cerca di appoggio materiale, forti della sua apparente fama fresca di articoli sulle più importanti e patinate riviste nazionali che, frustrato tra i frustrati, rivela di essere solo una pedina, l'ultima ruota del carro, mera apparenza secondo il nuovo stile politico dei nostri giorni tutto essere e gerontocrazia.
Originale la commistione regionale fatta dal regista in merito alla scelta dei protagonisti: il romano de Roma, Mastandrea, con relativo accento (giustificato eventualmente da lunga permanenza nella capitale) è fratello della meneghina Caprioli e del friulano Battiston; tuttavia questi fratelli d'Italia si amalgamano bene, ed è chiara la metafora del regista: l'unione e l'amore (Mameli docet) aiutano a superare ogni problema.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 14/07/2010 18.36.00
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