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Ennesima pellicola di Jim Jarmusch ed ennesima conferma di quella creatività rivolta all'atipico che caratterizza e rende particolarmente riconoscibile il suo cinema.
Questa volta, tuttavia, la differenza è sostanziale. La pellicola non solo propone storie e personaggi per l'appunto atipici, ma propone un'atipicità cosciente di sé, la rende protagonista quale fulcro di una sceneggiatura rigorosamente singolare. Un Jarmusch che parla di se stesso e del proprio cinema, in un prodotto che si pone al tempo stesso come atto d'accusa, difesa e sfogo.
Un uomo (Isaach de Bankolé), in un bagno d'aeroporto, effettua esercizi di rilassamento e meditazione. Quest'uomo ne incontra altri due, di cui uno è un interprete. Gli viene descritto un qualche tipo di lavoro, ma con frasi e modi tra i quali si fa fatica a scorgere quella logica che il protagonista, tuttavia, sembra afferrare, seppur in un modo tutto suo.
Questo è l'inizio del film, non si può aggiungere molto altro, non perché si rischierebbe di svelare troppo ma semplicemente perché non c'è nient'altro da aggiungere.
È chiaro fin da subito quali saranno l'aspetto e il ritmo della pellicola.
Jarmush non mostra fretta alcuna e sembra anzi comunicare implicitamente allo spettatore che la pellicola si prenderà tutto il tempo di cui avrà bisogno, senza preoccuparsi di coinvolgerlo nel caso in cui gli risulti difficile. Appena qualche sequenza più tardi se ne avrà la conferma, con conseguente abbandono di qualsivoglia speranza in cambi di ritmo. Quest'ultimo, decisamente lento, resterà infatti tale fino alla fine, e non fine intesa come parte conclusiva della pellicola ma come titoli di coda.
Quest'aspetto non sarebbe particolarmente rilevante se non fosse che il regista affianca allo stesso una sua personalissima visione di quello che può definirsi "cinema della ridondanza". Tutta la pellicola è ridondante. É ridondante nelle musiche, nei dialoghi, nelle azioni, nella regia e nella strutturazione delle sequenze. Ogni frase, ogni gesto dei personaggi che sfilano all'interno di "The Limits of Control" - e 'sfilano' è decisamente il termine più adatto in questo caso - si ripeterà, magari con facce diverse, ma si ripeterà.
Gli esercizi di rilassamento fatti dal protagonista li si vede un numero di volte sufficiente a memorizzarli, alcune delle frasi che il protagonista scambia con i personaggi che lo avvicinano, o meglio che gli altri personaggi scambiano con lui, ritornano così tante volte che addirittura vengono anticipate della mente dello spettatore, come del resto le musiche che accompagnano una sequenza già vista anch'essa varie altre volte, e determinate inquadrature le si attendono prima che puntualmente arrivino.
Ad essere ridondante è anche l'apparente no-sense del contenuto degli scambi, che ogni personaggio filtra attraverso la propria personalità, creando così un'alternanza di monologhi ora sulla musica ora sul cinema, ora sulla biologia molecolare ora sulla percezione della realtà. Tali scambi contribuiscono a confondere ulteriormente una sceneggiatura che già di per sé procede per sottrazione e a rafforzare, inoltre, quell'aspetto grottesco e surreale che domina la pellicola. Aspetto, quest'ultimo, che insieme ai non detti che paradossalmente costituiscono il racconto rappresenta uno degli unici due aspetti capaci di trattenere l'attenzione dello spettatore dal rivolgersi verso una macchia sul muro, valutandola come potenzialmente capace di restituire un quantità maggiore di entusiasmo.
I personaggi e le ambientazioni sono gli unici elementi, o quasi, che spargono qua e là differenze interessanti, seppur solo relative all'estetica e ai loro interessi. Ad essi Jarmush affida il compito di delineare una sorta di pattern comportamentale, capace di suggerire allo spettatore quale sia la realtà alla quale appartiene il protagonista e dalla quale nasce il lavoro che lo stesso dovrebbe portare a termine. Per rendere, in questo senso, la sensazione di realtà contrapposta ad un'altra, presumibilmente quella che si troverà a subire le conseguenze del lavoro di cui sopra, solamente due scene in 110 minuti, senza le quali la sceneggiatura apparirebbe del tutto priva di un punto d'arrivo.
Fondamentale, nella resa del fascino dei personaggi di contorno, gli attori chiamati ad interpretarli. I nomi, da soli, già dovrebbero confermare quanto appena scritto: Tilda Swinton, Gael Garcìa Bernal, Joan Hurt, Bill Murray rendono perfettamente i loro caratteri pur avendo solo pichi minuti a disposizione; stessa cosa dicasi per gli altri attori, meno conosciuti ma non per questo meno in parte.
Diretti alla perfezione, mischiano atteggiamenti e movenze con una regia assolutamente di livello. Jarmush infatti, ma questa non è una novità, mostra un tecnica impeccabile che alterna riprese sobrie e rigorose ad altre maggiormente ricercate, offrendo al tempo stesso inquadrature fisse e ben calibrate e ralenti brevi che esaltano un particolare movimento, piuttosto che uno dei tasselli di quella ridondanza di cui si parlava in precedenza.
È lasciandosi trasportare dal surreale, dai non detti, oltreché dai dubbi sulla pellicola stessa che si giunge ad un finale che permette finalmente alla sceneggiatura di palesarsi, mettendo a nudo e l'obiettivo della missione e, nel contempo, l'obiettivo del film stesso. Questi ultimi infatti coincidono perfettamente perché Jarmush non fa altro che dare concretezza, dare un volto nella finzione filmica a quello che è un problema astratto nella realtà, un problema che in tutta probabilità lo stesso regista sente particolarmente suo.
Si sta parlando del peso delle convenzioni sociali, delle regole di comportamento tanto non dette quanto presenti che spingono l'uomo a comportarsi non andando mai oltre determinati confini imposti non si sa bene da chi e sulla base di cosa. Difende se stesso e il suo cinema, difende l'espressione totale e non costretta in catene di sorta della personalità, il non aver paura del non uniformarsi. Per contro, accusa chi invece ha scelto non solo di vivere secondo strutture di vita preconfezionate, più o meno volontariamente, ma che ha addirittura deciso di imporle attraverso giudizi non richiesti.
Risponde, il regista statunitense, alla ghettizzazione del diverso con quella stessa ghettizzazione portata all'estremo, rendendola, ancor più che una categoria, una fazione in guerra contro la fazione ad essa antitetica. E ne decreta la vittoria, ancor prima delle ultime più esplicite sequenze, con la frase del protagonista in risposta al nemico:
- "Come diavolo hai fatto ad entrare?"
- "Ho usato l'immaginazione".
Un cinema quindi, quello proposto da Jarmush nella sua ultima pellicola, che spinge fino ad andare oltre, fino a raccontare se stesso. Può non piacere, è anzi assai probabile, ma di sicuro non gli si può negare l'aver centrato con precisione chirurgica, così come il protagonista della pellicola, l'obiettivo prefissato.
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Recensione a cura di K.S.T.D.E.D. - aggiornata al 29/11/2011 16.52.00
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