Recensione tredici variazioni sul tema regia di Jill Sprecher USA 2001
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Recensione tredici variazioni sul tema (2001)

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locandina del film TREDICI VARIAZIONI SUL TEMA

Immagine tratta dal film TREDICI VARIAZIONI SUL TEMA

Immagine tratta dal film TREDICI VARIAZIONI SUL TEMA

Immagine tratta dal film TREDICI VARIAZIONI SUL TEMA
 

"Il principio del dolore", per dirla alla Haslett. Chi ha avuto la fortuna di leggere quel libro, capirà di cosa sto parlando: una serie di epigrammi moderni, in chiave di romanzo, dove la vita riduce i nostri confini alla propria mediazione interiore, alla sconfitta.
Nel film della Sprecher, presentato con successo nella sezione "Eventi" alla Mostra del Cinema di Venezia di qualche anno fa, il dolore non è implicito o inconsciamente cercato, ma rappresenta il principio (eh) su cui l'uomo coniuga la propria esistenza con una forma di continua metamorfosi, di intransigenza di sé.
Cos'è, del resto, la vita se non una serie di imprevisti che non sempre riusciamo ad accettare?

In una forma di resa quasi passiva, antitetica a chi vorrebbe precostituire l'arcano della sofferenza e ribaltarla - come se fosse semplice - a nuova rigenerazione, " 13 variazioni su un tema" è un'opera che ha il merito di parlare senza retorica, né compiacimenti, allo spettatore; senza le sollecitazioni Nietzschiane della propaganda sociale, ripiegate su se stesse (quando, chi le subisce riconosce la distanza traumatologica tra la propria crisi e la grandeur dell'esaltazione della stessa come "arbitrio fondamentale per risorgere").
Sorta di Happiness che vive con la nostra amarezza quotidiana, e la divora, materializzandola.

Separazione, distruzione, sopraffazione del destino, già del destino, ma poi?
Non v'è altro che la splendida consapevolezza delle nostre debolezze, quando la vita ci riduce a vegeta(l)re dopo un incidente, e sentirsi "morti dentro"; quando i nostri diritti vengono calpestati, quando tutta la superbia ci porta a confrontarci con la nostra - forse un segno Divino? Chissà... - opprimente tragedia umana.
Chi altro può essere un poliziotto, quando finisce per credere di aver investito qualcuno con la sua auto? Nient'altro che un uomo che credeva - oh, illuso! - di essere in qualche modo "protetto" da se stesso.
Non c'è speranza nel film della Sprecher, si legittima non tanto l'ossessione morale della licenza umana, non soltanto almeno, ma la storpiatura esistenziale di chi ha creduto di poter desistere.

L'autrice cita in un episodio qualcosa da " Americani " di Foley, e soprattutto da " L'appartamento" di Billy Wilder: accostando una recitazione sommessa ad uno script decisamente da Actor's studio, paradossalmente molto più pregnante e meno verboso di quanto sembri.
La bellezza del film è tutta qui, nel credere - con passione e umiltà - nel messaggio che si dà. Come quando vediamo volar via la camicia, di un ripugnante e giovane ricco, in una corsa disperata, trafitta da un incidente che avremmo creduto fatale.
L'inesistenza ha dato alla morte un "messaggio di vita e speranza", a differenza di chi pretende con i soldi di sopraffare il destino proprio ed altrui.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 22/07/2005

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