Voto Visitatori: | 7,39 / 10 (68 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 6,50 / 10 | ||
Il passato ti viene a cercare in mezzo ai boschi, come il cacciatore sulle tracce del cinghiale nella bella sequenza di apertura del film. Possono passare quindici anni, puoi dire di aver messo da parte a history of violence e aver scelto una vita tranquilla: alla fine il passato ti ritrova. E occorre farci i conti.
Ciò cui non è dato sottrarsi, è l'irriducibile duplicità per cui il male e il bene convivono in ogni essere umano. In alcune esistenze, bene e male si sono polarizzati in estremità opposte: presto o tardi, torneranno in conflitto.
"Una vita tranquilla" è la seconda prova nel lungometraggio per Claudio Cupellini (dopo la commedia del 2007 "Lezioni di cioccolato"), da un soggetto di Filippo Gravino (vincitore del Premio Solinas 2003), sceneggiato, insieme a Gravino, dallo stesso Cupellini e Guido Iuculano.
E' un bel noir. Carico di tensione, si regge sulla magistrale interpretazione di Toni Servillo, su una sceneggiatura serrata, quasi sempre di buon livello (che mostra però imperdonabili inverosimiglianze verso la fine), e su di una regia sicura, capace di scegliere il giusto taglio delle inquadrature e i giusti movimenti di macchina per rendere veraci i rapporti tra i personaggi e tra i personaggi e l'ambiente.
Rosario, protagonista di "Una vita tranquilla", è un uomo mite con un insospettabile passato di camorrista pluriomicida, che si è costruito un'altra identità, immersa nella quiete dei boschi della Germania. Gestisce un ristorante con verve sanguigna e sorniona, ha una moglie tedesca e un bambino bilingue. Ma ha anche un figlio napoletano, con il quale, in totale segreto, ha continuato ad avere contatti.
Questo personaggio, in cui si avvertono echi di Pirandello e Simenon, ci porta alla mente il Tom Stall di "A history of violence" di Cronenberg (2005), ma in realtà è un archetipo (quello dell'uomo che si crea una nuova identità, il cui passato ritorna e pretende di saldare i conti). Il soggetto di questo film, risalente al 2003, è precedente al capolavoro del maestro canadese.
Così come "A history of violence", il soggetto del film è anche precedente ai fatti di cronaca di Duisburg del ferragosto del 2007, cui sembrerebbe ispirarsi e che non può non evocare (anche per lo scenario di un ristorante italiano).
Il personaggio di Rosario ricorda poi inevitabilmente il protagonista de "Le conseguenze dell'amore" di Paolo Sorrentino, interpretato sempre da Toni Servillo. Entrambi sono "esiliati" in terra straniera, hanno un passato criminale, vengono risucchiati da questo passato e ne scontano le conseguenze. Entrambi i film si avvalgono inoltre delle musiche di Teho Teardo, qui però più al servizio delle atmosfere, meno "significanti" ed espressive rispetto ai film di Sorrentino (dove invece sono parte attiva nella caricatura espressionista).
Le analogie sono evidenti, ma si fermano qui. Lo stile di Cupellini, che non reca un'impronta tanto personale, non sembra imitare quello di Sorrentino. Nel suo film restiamo sostanzialmente entro i confini del noir, mentre Sorrentino, più ambizioso, si mette in mostra con indiscutibile talento autoriale ma anche con la sua esasperata maniera.
Le differenze risiedono soprattutto in ciò che i due film intendono raccontare. I plot di "Una vita tranquilla" e di "Le conseguenze dell'amore" hanno somiglianze soltanto di superficie: "Una vita tranquilla" non è la parabola di un uomo escluso dalla vita, il quale - esasperato dal non-essere cui si è confinato - accetta sempre più consapevolmente la propria fine come inevitabile conseguenza del ritorno ad esistere. Rosario, a differenza del Titta de "Le conseguenze dell'amore", non ha alcuna nostalgia di vivere: egli vive. Realizzato e sereno, è finalmente - per Servillo - un personaggio non frenato, che il grande attore non è costretto a interpretare con toni prevalentemente dimessi e con una mimica minimale (come nei film di Sorrentino, come anche in "Gomorra" e come nel recente "Gorbaciof" di Incerti). Rosario urla, ride, si sa imporre: è prepotente e attivo. E' il padrone del suo piccolo mondo e Servillo è magistrale nel restituire, entro le righe, la normalità che ha conquistato.
A destabilizzare Rosario, arriva una coppia di feroci ragazzi di vita della camorra (personaggi che sembrano usciti più da un film di Garrone, semmai, che non di Sorrentino). Diego e Edoardo sono resi, con la giusta dose di aggressività irrazionale, da Marco D'Amore e Francesco Di Leva - specie quest'ultimo, diretto in modo da restituire la tempra davvero animalesca del personaggio. Di loro ci è suggerita nella primissima scena una possibile latente omosessualità, poi abbandonata nel resto del racconto.
L' "errore" di Rosario è stato di non rompere del tutto i ponti col passato: è riuscito a rifarsi una vita, ma non ha rinunciato al figlio (pur tenendolo nascosto alla nuova famiglia).
Il rapporto tra Rosario e Diego, padre e figlio, rappresenta il cuore della pellicola e ne costituisce il principale motivo di pregio. Entrambi i personaggi sono avvalorati, infatti, dalla relazione che si innesca tra di loro. Rabbia irrisolta da un lato e senso di colpa dall'altro, paura e affetto: i sentimenti riemergono prepotenti. Obbligati a vivere in segreto il loro ritrovarsi, ne sono reciprocamente scossi. E di fronte al crescente sospetto di Edoardo, si impongono scelte inevitabili.
Rosario, così sicuro nel suo nuovo mondo, si trasforma in modo sensibile. La comparsa del figlio ne intacca la solidità (Servillo è splendido nel restituirci il turbamento, quasi lo stordimento, che ne discende) e al contempo tornano gli automatismi della violenza (che rendono il personaggio quasi irriconoscibile).
In Rosario e Diego pulsa il dramma di una paternità negata, reso con sfumature che impreziosiscono il film, consentendogli di assumere un linguaggio universale e di insinuarsi nello spettatore al di là del contesto "estremo" della vicenda narrata.
La questione dei rifiuti che la camorra vuole non vengano "esportati" in Germania è un pretesto. Il film non parla di questo. La camorra è vista come parte della realtà, un dato di fatto. Ciò da un punto di vista "civile" potrebbe preoccupare, ma solo se si ritiene che il cinema, quando tocca certi temi, non possa prescindere dall'essere veicolo di denuncia. Al contrario, è un merito che il cinema italiano riesca ormai ad emanciparsi dalla "necessità di denuncia" e sappia avere con il crimine la stessa dimestichezza cui il cinema americano ci ha abituato sin dagli anni '30, dallo "Scarface" di Hawks in poi.
Tale dimestichezza infatti consente di innestare - proprio come nel cinema noir classico - motivi umani universali su di un contesto, quello criminale, che impone scelte estreme, in cui i caratteri vengono messi sino in fondo alla prova.
Il destino individuale non appare una condanna del fato, ma l'inevitabile conseguenza delle nostre scelte.
Della camorra, "Una vita tranquilla" dice comunque qualcosa di importante. Dice che è un contesto al quale - se ne fai parte (e in certi casi ci si è costretti quasi per nascita) - non è impossibile fuggire: è tuttavia costosissimo e difficilissimo. La via di fuga c'è: ma, proprio come suggerisce Saviano con "Gomorra", dev'essere una scelta radicale e dolorosa, che rifiuta in toto una realtà e un'esistenza, nella quale è impensabile pensare di restare, restandone estranei. La via d'uscita può essere, appunto, solo una fuga (il caso personale di Saviano dimostra quali conseguenze imponga, diversamente, la scelta di restare e denunciare).
Rosario ha avuto il coraggio di crearsi una nuova identità, ma ha commesso l'umanissima ingenuità di non rinunciare pure a un figlio. Diego non ha lo stesso coraggio, cui il padre lo mette di fronte: pagherà per questo.
Il film - storia di destini di padri e di figli - assume quasi i toni di una tragedia: una tragedia che scaturisce da un contesto brutale che non lascia scampo.
Purtroppo la sceneggiatura, come accennavamo, presenta gravi difetti verso la fine, per l'inverosimiglianza di alcuni snodi.
Intanto occorre dire che se il personaggio di Rosario convince completamente nella sua crescente angoscia, non si può affermare lo stesso quando assume alcune decisioni premeditate anche se rapide, quasi con nonchalance, nonostante il turbamento che sta vivendo. E' vero che "A history of violence" ci dimostra come certi automatismi vivono sottopelle e non possono essere rimossi, ma i gesti di Rosario sono premeditati, sono frutto di una razionale capacità di reazione di cui è più legittimo dubitare o che, quantomeno, dovrebbe esser fatta digerire più accuratamente allo spettatore.
E poi, quanto al finale, senza rivelare nulla a chi deve vedere il film, possiamo dire che a partire da quando Diego si dilegua con Mathias (evento possibile, ma poco probabile), i tempi di percorrenza autostradali sono ingenuamente implausibili; si esce quasi miracolosamente illesi da un brutto incidente (e qualcosa non torna nei tempi di reazione degli inseguitori); una fuga in un bosco di notte fino all'autogrill è sommamente inverosimile; per non parlare di cosa ne è stato di Mathias nel frattempo. Una sequenza intera insomma è arrangiata in modo molto "romanzesco" e inattendibile.
Da ultimo, appare forzato che l'esito casuale di una sparatoria si riveli fondamentale per due destini "scritti a tavolino". Proviamo a immaginare un diverso esito della sparatoria: il film potrebbe avere lo stesso significato che costruisce poi con le ultimissime scene? Probabilmente no.
Far scaturire il senso ultimo di un film dalla "roulette" di una sparatoria (che avviene peraltro nel punto di massima inverosimiglianza della pellicola) costituisce forse il maggior difetto di un'opera che non convince sino in fondo. Infatti le ultime conseguenze cui il film ci conduce non sembrano più frutto esclusivamente delle scelte e del destino che da esse discende, ma in gran parte frutto dell'alea, della traiettoria dei proiettili: dalla buona (o cattiva) sorte. Ciò rende il tutto vistosamente meno pregnante di quanto avrebbe potuto, anche se per fortuna non intacca irrimediabilmente le suggestioni che ci lascia quello che rimane un film coinvolgente e a tratti appassionante.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 05/11/2010 10.57.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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