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L'arte del XX Secolo è stata l'arte della libertà. Gli artisti concepivano e realizzavano le loro opere completamente liberi da regole, forme o gusti consolidati, con lo scopo di liberare la mente dei destinatari delle opere, rendendola libera di pensare e trovare un significato in piena autonomia, affinando i propri mezzi mentali.
Oltre a stimolare l'apertura mentale si sognava anche di contribuire a creare un mondo nuovo e una società più libera.
A dare l'esempio agli artisti dell'inizio del XX secolo furono gli scienziati. Liberatisi da pregiudizi religiosi e morali, avevano inaugurato una corsa alla scoperta e all'invenzione, sfruttando senza limiti tutto quello che offriva la razionalità umana e riuscendo così a cambiare dall'oggi al domani il modo di vivere comune. Gli artisti aspiravano a fare lo stesso con la parte spirituale della mente umana: via remore morali o sociali, vecchie regole o forme; si riparte da zero da nuovi fondamenti, anzi dai fondamenti più profondi dell'animo umano. Se nuove invenzioni scientifiche avevano cambiato la società, nuove forme di arte avrebbero cambiato il modo di sentire e vivere. Se agli scienziati era riuscito, perché non poteva riuscire agli artisti?
Tanto più che con la Prima Guerra Mondiale la vecchia società e i vecchi valori si erano in pratica autodistrutti e l'esigenza generale era quella di ricreare un nuovo ordine sociale, una nuova convivenza civile.
Ogni persona, ogni gruppo si sentiva in quel periodo di poter dire la propria, annunciando al mondo qualcosa di completamente nuovo e rivoluzionario. Ecco allora nascere nei primi anni del '900 la moda dei "manifesti": opuscoli, fogli stampati, articoli di giornale o rivista, dove si enunciavano i principi della propria proposta di nuova arte e di nuova società. A tutte queste manifestazioni d'intenti non sempre seguivano opere coerenti. Bastava evidentemente fare scalpore, fare notizia per poter esistere e influire. Alcuni però andavano fino in fondo e cercavano di realizzare ciò a cui aspiravano, mettendo in gioco anche la propria vita.
Parigi diventò un po' la capitale di questi gruppi elitari, conosciuti come 'avanguardie'. Dopo che i Dadaisti avevano predicato la tabula rasa di qualsiasi regola, pensiero o valore, i Surrealisti capitanati da André Breton cercarono di creare e diffondere un nuovo modo di pensare e vivere, basato sul subconscio e i propri sogni.
I Surrealisti si affidavano ad esempio all'autoscrittura: scrivere tutto quello che veniva in mente senza badare al senso, lasciarsi andare completamente e esprimere ciò che passava per la testa senza vergogne o paure. L'intento finale era quello di smontare qualsiasi forma di perbenismo o divieto morale per permettere all'individuo di vivere liberamente il proprio essere naturale, identificato con i propri istinti sessuali o anche violenti. Si faceva sentire molto l'influenza di Freud, dei poeti maledetti e addirittura di Sade.
Anche il cinema si trovò ad essere coinvolto in quest'opera di profondo rinnovamento spirituale e sociale del vivere umano.
Nell'Aprile del 1929 uscì a Parigi il cortometraggio "Un Chien Andalou", quello che a tutti gli effetti è una specie di "manifesto" per una nuova forma di arte cinematografica e per un nuovo modo di rappresentare la natura umana, molto vicino all'etica surrealista. Gli autori erano due giovani e sconosciuti artisti venuti a Parigi dall'arretrata ma passionale Spagna: Luis Buñuel e Salvador Dalì.
Venivano da famiglie borghesi benestanti e avevano studiato insieme a Madrid. Entrambi molto sensibili, sentirono con forza l'appello alla libertà che girava per le menti artistiche dell'Europa. Decisero così di cercare fortuna a Parigi portando con sé tutto lo spirito passionale e visionario dell'arte spagnola.
Buñuel si fece le ossa pubblicando recensioni cinematografiche e facendo l'assistente al regista Epstein; quindi decise di provare a dire la propria. Si fece prestare del denaro da sua madre e chiese aiuto al suo amico Dalì per scrivere una sceneggiatura, che fu completata in sei giorni. Secondo la loro testimonianza, lasciarono andare semplicemente la fantasia e di comune accordo crearono una specie di canovaccio visionario assolutamente slegato da qualunque trama o unità di tempo, luogo, azione. Analizzando l'opera si scopre però che la casualità è solo apparente e che i due artisti avevano tirato fuori in realtà idee e concetti già presenti nelle loro opere e che rivelano chiaramente le loro aspirazioni ideali. L'intento di apparente casualità è dato soprattutto dal titolo finale dell'opera ("Un cane andaluso") che non c'entra assolutamente niente con la storia e che venne scelto dopo avere scartato un primo titolo che sarebbe stato molto più pertinente ("Pericoloso sporgersi dentro").
L'ossatura formale del cortometraggio è il montaggio alternato. È tutto un susseguirsi di immagini o scene apparentemente slegate fra di loro, ma che vogliono invece giocare sul sistema delle associazioni mentali metaforiche dato dalla natura astratta e simbolica che gli oggetti hanno nell'inconscio umano. Il prologo è una specie di annunciazione di intenti artistici. Un uomo (Buñuel stesso) affila un rasoio e guarda dal terrazzo la luna, poi apre l'occhio di una donna e lo taglia con il rasoio (l'occhio in realtà era quello di un bue). La luna si copre di nuvole. Si tratta di una scena molto forte e scioccante allora come oggi e simboleggia un taglio netto con l'arte rappresentativa, fatta solo di apparenze e di sentimentalismi, per andare a esplorare la parte scura dell'animo umano.
Segue un montaggio alternato fra una donna in una camera da letto e un giovane che va in bicicletta vestito con strane gale (ha un'aspetto infantile), portando sul petto una scatoletta a righe (che riapparirà in tutto il film e che rappresenta forse l'interiorità umana). Il giovane ciclista cade e apparentemente muore. La donna lo fa rivivere baciandolo (il passaggio dall'infanzia all'età adulta con la scoperta del sesso?). Il giovane si ritrova meravigliato con una mano bucata (tipo quella di Cristo) da dove escono formiche (immagine tipica dei quadri di Dalì). Poi si vede l'ascella di lei ricoperta di peli seguita dall'immagine di un riccio di mare. Sono tutte immagini anticonvenzionali, blasfeme e forti che alludono al sesso.
Si allude anche alla natura passionale, macabra e violenta della parte sessuale umana. In una scena un androgino guarda estasiato una mano mozzata; la mette nella famosa scatola e se la porta al cuore. Viene però impietosamente investito da un auto in corsa. Questa scena forte e violenta sembra eccitare il giovane che guarda la donna con uno sguardo inquietante (lo stesso ripreso da Kubrick in "Arancia Meccanica") e cerca di violentarla (appaiono scene molto osé per l'epoca, di seni e glutei nudi). Un'interposizione della faccia di lui morente lega il concetto di sesso con quello di morte.
Che l'espressione libera dei propri istinti sia molto ostacolata è dimostrato dalle scene metaforiche seguenti, in cui il giovane si trova a trascinare due pesanti pianoforti con sopra due asini in putrefazione e poi due preti (uno di questi è interpretato da Dalì).
"Putrefatto" stava ad indicare nel gergo poetico spagnolo di allora tutto quello che era falso, melenso e sentimentale. E' quindi il romanticume della cultura dominante e il dominio religioso nella morale ciò che impedisce di arrivare all'espressione diretta del proprio essere.
Gli impedimenti vengono però anche dall'interno delle medesime singole persone. Il giovane si sdoppia e la parte perbene colpisce la parte istintiva con carta e calamaio (la scuola, l'educazione, la cultura ufficiale che reprime gli istinti). L'altra parte si vendica sparando al doppio perbene (accenno a metodi decisi per affermare la propria libertà). Dopo uno stacco campagnolo che interrompe la progressione emotiva, si ritorna ai due giovani, stavolta a ruoli rovesciati. Lei si mette un rossetto e sembra sfidare lui, il quale si trova senza la bocca e con al suo posto i peli di ascella di lei. Può voler dire che il sesso è un'arma da parte della donna per soggiogare e dominare un uomo (come Dalì, che verrà stregato dalla ex-moglie di Paul Eluard).
La parte finale del cortometraggio vede la donna ormai consapevole di sé che circuisce un giovane rampollo di buona famiglia lungo una sassosa spiaggia marina. Tra i sassi spuntano i vecchi vestiti del ciclista e la famosa scatoletta, tutti imbrattati e rovinati. Significa forse che la donna alla fine ha scelto l'accomodamento borghese, rinunciando a ogni liberazione interiore. Ci pensa l'ultimissima scena a svelare l'esito di questa scelta, ritraendo i due amanti seppelliti fino alla cintola in un paesaggio desertico, tristi, sguardo perso, estranei l'uno all'altro. L'accomodamento borghese significherebbe quindi la morte spirituale degli esseri umani. Questa scena finale rappresenta inoltre il ripudio artistico del lieto fine.
Questo cortometraggio fu presentato in un unico cinema di Parigi per alcuni mesi, facendo subito grande scalpore. La sua diffusione fu molto limitata, ma fu visto da tutte le persone più importanti che si occupavano di cinema e arte. Apparentemente fallì il suo intento, in quanto la storia del cinema non cambiò immediatamente il suo corso. Ci vollero quasi quarant'anni prima che gli intenti dell'opera si realizzassero in parte, quando le porte del grande cinema si aprirono anche alla rappresentazione senza remore degli istinti sessuali e violenti che albergano nell'animo umano.
L'intento principale, quello di liberare completamente la forma dell'espressione e il modo di giudicare dello spettatore, è ancora in gran parte irrealizzato (a parte l'opera di David Lynch). Questo fa sì che i 17 minuti di "Un Chien Andalou" siano ancora i più rivoluzionari della storia del cinema.
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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 08/01/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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