Recensione visitor q regia di Takashi Miike Giappone 2001
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Recensione visitor q (2001)

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locandina del film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q

Immagine tratta dal film VISITOR Q
 

Miike è un regista da prendere con cautela. Di certo non avvicinabile a chicchessia, per apprezzare in pieno le sue opere è necessario non solo un forte stomaco, ma anche una mente piuttosto elastica.
Se è vero che Takashi non è un autore, nel senso lato del termine, è pur vero che ad osservare i suoi frammenti filmici isolati, e non come un continuo flusso in perenne evoluzione, ci si può anche fare del male.
Fortunatamente Dio (o chi ne fa le veci) ha munito le più scaltre delle sue creature con una delle sue più mirabili invenzioni: il senso del grottesco e dell'ironia. E pare che durante la visione dei film di Miike questi due meravigliosi strumenti siano richiesti a gran voce; ciò vale per la quasi totalità della sua sterminata filmografia, ma in particolar modo per "Visitor Q".
Perchè qui siamo oltre il concetto di Oltre (con la "O" maiuscola); non sembra di essere in presenza di un confine da oltrepassare, semplicemente pare non esserci traccia di questo confine. L'insano e il perverso diventano qui così familiari da apparire realmente come unica via da seguire.

Ma procediamo con ordine: nel 2001 il produttore di Miike lo inserisce come regista dell'ultimo dei sei film della serie "love cinema", prodotto esclusivamente per il mercato dell'home video. Le condizioni impostegli sono due: l'utilizzo del digitale e il trattamento dei valori familiari.
Nasce da qui l'idea di realizzare una sorta di ambiguo remake di "Teorema" di Pasolini ambientato in giappone e in epoca attuale. La cosa è già di per sè foriera di grandi speranze, giacchè si tratta in pratica di un regista malatissimo che si ispira ad uno malato già di suo; le aspettative non sono disilluse e Miike partorisce quello che è il suo figlio più indigesto e disturbante, e soprattutto per questo così affascinate - del resto si può restare affascinati anche dalla visione di una tarantola che sta per morderci -.

Seguendo la strada di "Teorema" e incrociandola lungo il percorso con quell'altro capolavoro che è "Crazy Family" di Ishii Sogo, Takashi giunge ad una perfetta sintesi che, nella sua ambiguità, risulta essere esattamente complementare e speculare ai due film citati.
Se nel capolavoro pasoliniano un giovane visitatore dissolveva la centralità del nucleo familiare e ogni personaggio conquistava una sua individualità, in "Visitor Q" assistiamo all'esatto contrario, e l'enigmatico personaggio che irrompe nella già dissociata famiglia comunica con essa principalmente mediante il mezzo della violenza.
Violenza non ingiustificata, nè fine a sè stessa, ma male necessario per far detonare gli ultimi residui di focolare domestico nel quale l'ospite si trova ad operare, con il solido progetto di riedificare il nucleo non appena il punto di non ritorno sia stato raggiunto; e per raggiungere tale punto è necessario far crollare la barcollante struttura precedente, non in grado di reggere i conflitti e le tensioni dei membri familiari.
"Sei venuto qui per distruggerci, vero? Grazie", dice il figlio che riverso in un lago di latte e liquido genitale della madre (ormai ritrovata) letteralmente si netta, purificandosi e rinascendo. La distruzione a cui allude non è quindi da considerarsi negativa, ma come unica strada per ricominciare: per ricostruire qualcosa bisogna prima di tutto distruggere ciò che preesisteva.
Prima di tutto ciò, veniamo catapultati a forza e in maniera del tutto violenta negli ultimi istanti della "vecchia" famiglia, formata dal padre (zimbello della famiglia e dei colleghi di lavoro; stuprato con un microfono mentre indagava sulla dissoluzione dei valori giovanili proprio da quegli stessi giovani), la madre (che riceve botte dal figlio continuamente e si vende per procurarsi la droga), la figlia (bella ragazza scappata di casa che si prostituisce - anche con il padre -) e il figlio (che subisce passivamente la violenza dei compagni di scuola e custodisce nell'armadio una nutrita collezione di battipanni con cui picchiare la madre).

Il viaggio del "visitatore q", sorta di deus ex machina viaggia in parallelo con il viaggio del padre, esemplificato dalla ferrea volontà di scoprire, tramite un documentario, cosa non va nel mondo. Dopo il suo piccolo "incidente", che gli è valso l'iserimento forzato del microfono per intervistare nel suo ano, capisce che più che al macrocosmo deve rivolgersi al microcosmo della sua famiglia, una realtà che sicuramente conosce meglio.
Indagando sulla sua famiglia favorisce in tal modo il compito dell'ospite Q. La prima cosa che scopre è il modo di guadagnarsi da vivere della figlia, ovvero la prostituzione; lo scopre giacendo con lei e pagandola, non senza intervallare i suoi gemiti con "non possiamo, non possiamo".
Già in questa scena, giocata con l'uso del digitale sia intradiegetico che extradiegetico, viene a galla uno dei temi scottanti del film: la perdita di caratteri prettamente maschili della figura dell'uomo. Il padre viene deriso dalla figlia per essere venuto presto, dopo appena 2 colpi ("early bird, early bird"), e per questo essa chiede un compenso maggiore: chi viene presto paga di più, da intendersi che la perdita del proprio potere sessuale non è questione che accetti sconti dalla vita. Tornato a casa manifesta il suo deciso calo del desiderio nei confronti della moglie, dandole le spalle e addormentandosi vestito.

Il figlio non è da meno; pur essendo in età adolescenziale manifesta una chiara predisposizione alla rinuncia di qualsiasi valore "mascolino". Ciò attraverso la rinuncia a qualsiasi tipo di difesa nei confronti delle violenze, subite e accettate con sguardo basso, come da chi pensa che in fondo sia giusto così e che se lo meriti. L'unica via di fuga del figlio è quello di sfuttare la sua bellissima collezione di battipanni con la madre, pestandola per i motivi più futili.
L'ospite (il regista Watanabe Kazushi) tende la mano ad ognuno dei componenti, portandoli all'esasperazione dei propri vizi ed epifanizzandoli, manifestando loro peculiarità sempre possedute ma sopite a causa (forse) degli intransigenti meccanismi della routine. Il padre si "risveglia" uccidendo la collega di lavoro che lo disprezza ("mi disprezzi perchè sono venuto presto, vero?"). La porta a casa e la mette nella piccola serra, cercando di capire come farla a pezzi per bene. Nel frattempo la madre scopre che titillandosi i capezzoli è in grado di secernere quantità abbondanti di latte (e chiariamo che non ci sono effetti speciali; capezzoli veri e latte vero), appropriandosi così del suo ruolo di madre allattante e per cui portatrice di vita.
Nel frattempo, il padre, di fronte al corpo nudo della collega defunta ha un'improvvisa eccitazione e pensa bene di violentarla, ritrovando sensazioni nell'atto della penetrazioni dimenticate da tempo. Si stupisce percependo del calore, e immagina che la vagina di lei si stia bagnando (cosa impossibile per una morta), salvo poi scoprire che che si tratta delle feci che il cadavere sta espellendo ("anche da morta mi prendi in giro cagandomi addosso?").

Se vi sembra che sia abbastanza, o siete dei Boy Scout o semplicemente non conoscete Miike. Durante il rapporto, il sacrosanto diritto al rigor mortis che ogni cadavere ha si manifesta in tutto il suo sfolgorante splendore, facendo sì che il pene del genitore rimanga incastrato nella vagina della donna.
Viene portato in casa dalla moglie e dal visitatore (che ormai assiste solamente) in una delle scene più memorabili del film, e messo a mollo in una vasca con acqua calda e vari prodotti chimici per risolvere l'imbarazzante questione. E riesce finalmente ad uscire, proprio quando il figlio sta tornando a casa inseguito dai soliti bulli che lo tormentano.
Il padre e la madre, ormai ritrovatisi, escono in soccorso del figlio e allegramente fanno a pezzi i teppistelli con l'ausilio di attrezzi per il giardinaggio; il figlio entra in casa e si sdraia nel latte della madre e olè, pure lui ritrova sè stesso.
Il passo successivo è di sbarazzarsi finalmente di tutti i cadaveri, e ciò avviene con le espressioni più soddisfatte e felici della storia del cinema; l'intesa familiare è ormai trovata, l'intesa trionfa nuovamente (o forse per la prima volta). Manca solo la figlia, ma sarà sempre il visitatore Q a pensarci, e a risolvere la faccenda, con sassate direttamente in faccia, come già avvenne per per il padre.

Il film si chiude con la madre che, con lo stesso amore dovuto ad un proprio figlio appena venuto alla luce, allatta figlia e padre. Nucleo familiare ricostruito e missione completata per il Visitor Q; ricostruzione preceduta da un'esasperazione di tensioni e conflitti che conducono però non al trionfo dell'individualismo e al culto della personalità, ma all'integrazione familiare, assoluto e intoccabile valore per la cultura giapponese.
Ma fermiamoci un attimo; leggendo sin qui avrete potuto pensare che il film sia assolutamente malato e insano, ma non vi preoccupate per questo; è molto peggio di quel che pensiate, a causa anche - e soprattutto - del digitale volutamente "spartano" che conferisce al film un'aria documentaristica; ciò avviene specialmente nella prima scena, con annesso rapporto incestuoso, dove lo sguado oggettivo dell'istanza narrante si nasconde, e si confonde, con il digitale intradiegetico della telecamera del padre e della macchina fotografica digitale della figlia.
Si è accennato all'inizio di un'ipotetica linea di confine da varcare, ma che questa risulti in realtà assente. E' così in quanto Miike non mostra mai le cose da due punti di vista, investendo la materia trattata di mero manicheismo; in realtà, già dal primo secondo siamo catapultati a forza, brutalmente, in questo mondo che si gioca esattamente con queste regole, e con queste si deve andare a fondo.
Si potrebbe dire che tutto il cinema di Miike sia in realtà così, ma se in altre sue opere si viene colpiti per crudezza delle efferatezze, qui si gioca con simboli forse più insani e disturbanti: se vedere Kakihara che tortura un boss ("Ichi the Killer") può risultare sgradevole, assistere ad una madre i cui seni zampillano latte può risulare molto più fastidioso, vedere per credere.

Si potrebbe dire che nessun film di Miike sia violento ed esaperato cone "Visitor Q", e a ragione; non assistiamo infatti al teatrino iperviolento degli yakuza, ma siamo continuamente posti di fronte a tabù per noi invalicabili e impensabili. E'però curioso come sia tendenza comune parlare di tale film come prodotto del tutto immorale, quando, in realtà, si tratta di dell'opera più moralizzante della sterminata filmografia di Miike.
Probabilmente ciò che soprattutto colpisce è la naturalità con la quale avvengono le cose; saran forse malati i fan di Miike, ma TUTTO ciò che avviene in "Visitor Q" pare essere dettato da comune buon senso; ogni singola azione, nessuna esclusa.
Chiaramente non è così, ma assistiamo ad uno spettacolo talmente esagerato da non poter che reagire in due modi: o ridere forsennatamente o dare di stomaco, staccando la spina entro i primi venti minuti. Come sempre, è questione di carattere.
Ma è bene ricordare che una persona sana non può far altro che terminare questo mondo con la visione stessa del film, mentre chi porta avanti la sterile crociata contro la violenza nelle opere fa in realtà germogliare ciò che vorrebbe condannare; gli individui che non sono in grado di controllare ciò di cui son timorati son notoriamente più pericolosi.

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Recensione a cura di cash - aggiornata al 16/11/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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