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Il primo requisito per godere appieno di questo capolavoro, probabilmente unico nella storia del cinema, è vederlo almeno due o tre volte. La sua lunghezza e la sua complessità, per essere meglio apprezzate nella loro struggente poesia, necessitano di più visioni e approfondimenti. Si tratta di una pellicola che, nei suoi fotogrammi, abbraccia e ingloba tutto ciò che si può richiedere al più alto e impegnativo dei film: la poesia allo stato puro, la suspense, la spiritualità (ebbene sì, anche quella; nella strenua, impossibile ricerca del protagonista Noodles di fragilissimi frammenti di felicità, ad esempio, o nel suo rapporto viscerale con gli amici defunti), lo studio introspettivo dell’essere umano (trionfante nella sua mostruosa, irreversibile ambiguità), il brivido di una colonna sonora inimitabile, perfino le schegge di humour. Lungo l’arco di 220 minuti si consuma una dramma che vive, e palpita, per oltre quarant’anni. Dai tempi in cui Noodles e i suoi amici Max, Patsy, Cockeye e Dominic erano solo dei ragazzini “promettenti” alla loro definitiva, adulta consacrazione nel mondo del crimine. Con tutti i rischi, le contraddizioni e i tradimenti che l’età adulta rischia di liberare, nella sua ormai disincantata tensione al potere. Un patto di gioventù violentato, un’umanità stuprata eppure così irresistibilmente commovente e poetica nella sua ingarbugliata ambiguità. Del resto, negli ultimi fotogrammi del film, quando ormai lo spettatore ha interiorizzato la tragedia e i sentimenti dei vari personaggi, all’interno del teatrino cinese le figure stilizzate del Bene e del Male si affrontano nell’eterna battaglia fra le opposte fazioni dello spirito umano…sovrapponendosi e confondendosi infine fra di loro. Non c’è un bene o un male, in questa meravigliosa e lancinante vicenda; ci sono soltanto la spontaneità, la sofferenza, il cinismo e il rimorso di “noi” esseri imperfetti ma dotati di una coscienza. In più, c’è la regia “emozionante” (è l’unico termine forse in grado di riflettere la potenza di certi “rallenty” accompagnati dalla musica, di alcuni stacchi e flashback di immensa forza evocativa fra “passato” e “presente” dei protagonisti) di Sergio Leone. E ci sono i contrappunti di Ennio Morricone: come disse uno dei produttori, quella di “C’era una volta in America” è forse la colonna sonora più suggestiva e intensa di tutta la storia del cinema. Fra gli attori, Robert De Niro si rivela in tutta la sua espressività e sofferenza, così come James Woods. Strepitosa anche Deborah-Elizabeth McGovern. Tra una ripresa e l’altra, Sergio Leone lasciava che le note di Morricone dominassero il set e fungessero da stimolo emotivo per gli attori, calati assieme a tutta la troupe in un’atmosfera magica, quasi “mistica”. La stessa atmosfera che, miracolo della cinepresa, riesce ad avvertire e respirare lo spettatore.