Chi non ha sognato almeno una volta di vestire i panni del più famoso agente segreto? Questo documentario racconta la storia di due amici, delle loro vite e del loro sogno.
Ho avuto la splendida opportunità di intervistare Remo Remotti il poeta, pittore, attore romano scoperto da Bellocchio e che sicuramente ricorderete in Palombella rossa di Nanni Moretti.
Come accade periodicamente dall'ormai lontanissimo 1998 il commissario Montalbano, nato dalla feconda penna di Andrea Camilleri, autore vetusto ma mai domo, fa irruzione sul piccolo schermo e fa incetta di ascolti e consensi.
Le ragioni di tanto successo sono senza dubbio molteplici: la bravura degli interpreti che ormai da più di tre lustri indossano i panni dei vari personaggi, i simpatici comprimari scelti in casting locali e tutti altrettanto validi e pittoreschi, il setting accattivante, la colonna sonora calzante, gli intrecci appassionanti.
Un unico neo però offusca le innumerevoli note positive: il sessismo soffocante e ottuso che dal 1998 continua ad abbattersi implacabile su tutte le donne che si confrontano con il commissario e con gli altri personaggi.
Camilleri non nutre grande simpatia verso il "gentil sesso" per essere così impietosamente critico nei suoi confronti anche se, per essere equi, non è che veda di buon occhio neanche i maschietti...
Genericamente le varie protagoniste che soprattutto nelle ultime serie dominano la puntata settimanale, tendono ad esprimere quasi immediatamente una simpatia un po' troppo eccessiva nei confronti dell'intrepido Salvo. Egli se nel primo decennio era abbastanza serio e fedele verso la fidanzata Livia (donna tra l'altro un po' ambigua in quanto più legata al suo lavoro, ai suoi amici e al suo luogo d'origine tanto da non provare nemmeno per un attimo a pensare che gli anni passano e che sarebbe opportuno interrompere le reciproche solitudini e accorciare le chilometriche distanze) da una decina d'anni a questa parte appare alquanto incline alla scappatella con donne di ogni ceto ed età.
Oltre alla categoria della cosiddetta "fimmina vastasa" Camilleri introduce la donna popolana non bella, di cultura bassa e decisamente comica anche se spesso utile alle indagini perché incline a rivelazioni di ogni tipo. Poi c'è la categoria della brava moglie solitamente abbigliata e pettinata stile anni Cinquanta, vive in case d'epoca e se ne sta al posto suo. Altre donne "al di sopra di ogni sospetto" sono le insegnanti, per le quali Camilleri nutre una sorta di venerazione essendo colte, serie e in genere in pensione quindi con abiti e atteggiamenti rigorosamente d'antan.
Lo spettatore medio ingoia tutto perché assorbito dalla trama, ma c'è da dire che nonostante la programmazione su Raiuno riesca a rendere il tutto sempre molto adatto alla presenza dei minori, il fatto che spesso si vada a parare sempre su un argomento riporta Camilleri alla stregua del pruriginoso Brancati.
Ci si attende quindi una protagonista meno incline alle avventure con il commissario o un qualsivoglia masculo della serie e più inserita nella vita moderna, sia come abbigliamento che come modo di rapportarsi, o altrimenti il Montalbano continuerà a rimanere attraente ma rassegnato a restare aleatoriamente nel mondo di quella finzione che non è nemmeno più verosimiglianza ma solo mondo di caratteri.
L'ultimo film di Haider Rashid tratta un argomento interessante, come i
ragazzi di seconda generazione. Questo film vi è piaciuto? Siete indecisi se
andarlo a vedere? Spero che il video possa aiutarvi a decidere.
Buona visione
Ecco fatto. Dopo anni di dubbi laceranti, infuocati dibattiti e angosce esistenziali, possiamo finalmente giungere a una conclusione: Rob Zombie è una bufala. Amen e così sia. Quello che molti ancora si ostinano a spacciare per un autore coraggioso, investito del compito di riportare in auge il cinema dell'orrore duro, puro e senza compromessi, è in realtà un adolescente strafatto in tempesta ormonale che gira un'ora a trentasei minuti di immagini sconnesse il cui unico senso di esistere è il culo della moglie. Bravo lui. E bravo un sistema di fan che gli ha perdonato tutto, solo perché ci ha dato l'illusione con La casa del diavolo, di rinverdire i fasti del cinema da battaglia degli anni '70.
Ah, sì, quel cinema è morto e sepolto, se qualcuno non se ne fosse accorto. Esistono cosette da niente come il contesto storico che gli remano un po' contro. E va bene, un film così all'insegna della nostalgia canaglia ci può stare. Ma da lì a voler pretendere di essere classificato come autore, quando non hai neanche la più pallida idea di cosa significhi mettere in scena una storia, ci passa in mezzo un oceano.
Io non riesco più a capire dove stia andando l'horror in questo periodo. Mi trovo spiazzata. E soprattutto non capisco cosa cercano gli appassionati, perché se una cosetta amatoriale da quindicenne metallaro con cinquantasei birre in corpo solleva un polverone tale, allora davvero, la devo smettere di scrivere e vedere film. Che poi i metallari son persone serie. Si sentirebbero offesi loro per primi da The Lords of Salem.
Il mio amico Max, cura ogni settimana sul suo blog dedicato al metal una rubrica divertentissima chiamata The Gallery, in cui mette alla berlina le peggiori copertine dei dischi. Ecco, The Lord of Salem è una specie di Gallery in movimento, con tutta la simbologia più becera e abusata, la mancanza di originalità che vuol passare come arte visionaria, e un paio di vaccatelle wannabe blasfeme a cui piacerebbe tanto scandalizzare.
E ovviamente, non scandalizza neppure la buonanima di mia nonna, che al massimo verrebbe colta da catalessi immediata.
Ma di che parla codesto gioiello che è uno dei punti più alti mai raggiunti nella istoria del cinema tutto?
Di un disco maledetto.
Sì, un disco maledetto (oltretutto, Rob, sei musicista, ma sforzati almeno di far uscire da quel cazzo di vinile una nenia decente) e una DJ (Sheri Moon) che viene posseduta da questa musica satanica che le fa fare le brutte cose, tipo cavalcare un caprone, o attaccare il telefono in faccia al fidanzato. La cosa peggiore è che ha le visioni con pacchianissimi crocifissi al neon, dietro cui si nasconde uno yeti. Ancora più tragico, è circuita da tre vecchiette sotto anfetamine (Judy Geeson, Dee Wallace, Patricia Quinn) che in realtà sono streghe e, attraverso il culo di Sheri Moon, intendono riportare in vita l'antico culto dei Signori di Salem. Detta così sembra una stronzata. Ma non fatevi ingannare, è anche peggio di come si presenta.
Rob Zombie è un regista rozzo. Non è dotato di tecnica, non è in grado di dare ai suoi film uno stile preciso. Si arrabatta tra il videoclip e il plagio più o meno consapevole dei mezzi espressivi in voga negli anni '70. Quindi irrimediabilmente datati. Però, almeno per il suo esordio e soprattutto per La Casa del Diavolo, ha dimostrato di possedere una qualità tutta particolare: amore e trasporto sinceri nei confronti della marmaglia di rifiuti umani di cui narrava le gesta. E sembrava che questo fosse il fulcro della sua poetica, se di poetica è lecito parlare. E invece no. Era una presa per i fondelli anche quella.
Perché con The Lords of Salem Zombie abbandona del tutto la prospettiva del regista reietto e rudimentale che parla di reietti e ce li fa sentire vicini, per atteggiarsi a sofisticato autore che strizza l'occhio a gente come Russel e Jodorowsky. Per tacere dei riferimenti continui a Fulci che non lo devi toccare e non lo devi neanche nominare.
E Zombie, gli strumenti per padroneggiare la poesia lisergica e visionaria di certi grandi maestri non li ha. Non c'è niente da fare. Pretende di mettersi a giocare sul loro stesso terreno, gioca coi simboli e con le immagini subliminali, non si spreca neanche a scrivere una storia, perché tanto i veri autori non ne hanno bisogno. E fallisce in maniera così clamorosa che già dopo i dieci minuti di film ti verrebbe voglia di farlo sedere all'ultimo banco della classe con le orecchie d'asino in testa e sequestrargli il lettore mp3 coi Velvet Underground. Tanto non li capisce.
Però, il caro Rob sa benissimo cosa vogliono da lui i fan adoranti: la citazione che ti fa sentire colto e all'avanguardia, la parata di vecchie glorie da riconoscere per dar di gomito all'amico nerd e dirgli: "oh, guarda, c'è Meg Foster invecchiata di merda", un paio di inquadrature sbilenche, paccottiglia religiosa da negozio di souvenir a San Pietro e un finale in cui il regista e sceneggiatore si erge in pieno delirio di onnipotenza e pretende di realizzare una sequenza disturbante e allucinata. Sì, con quattro dildi rossi, il solito caprone e la solita Sheri Moon acchittata come la madonna. Ma colori acidi, mi raccomando, che ci scrivono sopra sette trattati. Siamo provocatori noi, andiamo contro le convenzioni e facciamo la gioia dei satanisti della domenica all'oratorio.
Non è tanto il fatto di essere arrivati fuori tempo massimo, o di usare un immaginario e una simbologia che andavano bene trent'anni fa. Il problema sta altrove, nella paraculaggine senza pudore che sottende a un'operazione del genere. E nel dilettantismo con cui la si affronta, consci del fatto che tanto il pubblico potrebbe bersi anche una compilation di rutti se fosse a firma Rob Zombie. Saper di godere di credito illimitato e giocarci sopra, atteggiandosi anche a ultimo baluardo del cinema indipendente in un mondo di venduti. L'idea che solo una setta di eletti e profondi conoscitori del genere può arrivare a comprendere un film di questo tipo. E tutti gli altri sono traditori.
E non rendersi conto che The Lords of Salem non è cinema, ma il rigurgito narcisista e masturbatorio di un incompetente che ha azzeccato un solo film in carriera per un formidabile colpo di fortuna. Recitato da un branco di cani arrabbiati, diretti come se fossero la filodrammatica della parrocchia dietro casa e con una protagonista che, bel posteriore a parte, non ha la capacità di caricarsi sulle spalle un film intero, come il marito vorrebbe che facesse.
The Lords of Salem è un insulto all'intelligenza, un insulto al gusto estetico e un insulto al cinema. Perché autori non ci si improvvisa. E se penso che questa betoniera carica di merda è distribuita in sala da noi, mentre Ti West e Lucky McKee a stento trovano uno sbocco in home video, mi metto a piangere.
Non dategli i vostri soldi.